La Conferenza Internazionale di Vienna si conclude con l’impegno della comunità internazionale a vendere armi alla Libia, oltre che aiuti umanitari e sostegno. Dopo mesi di voci e smentite scompare per ora l’intervento militare.
“Dal siamo pronti a intervenire”, al “siamo pronti a intervenire su richiesta di Al Serraj” fino a ‘zero soldati’. O comunque: soldi e armi invece che soldati. Nel corso dell’ultimo anno di crisi in Libia, il governo italiano ha provato a rispondere con una serie di impostazioni non proprio coincidenti l’una con l’altra. E sicuramente non coincidenti con la posizione finale, suggellata oggi dalla conferenza internazionale di Vienna con il nuovo premier libico Fayez al Serraj.
A dispetto di vecchie dichiarazioni del gennaio 2015, quando il ministro Roberta Pinotti ipotizzava l’invio di “5mila soldati in Libia”, l’Italia oggi non invia soldati. E decide di rispondere alle richieste di al Serraj soltanto con forze di addestramento delle milizie libiche, anche se al Serraj il 25 aprile aveva chiesto aiuto all’Onu per presidiare i pozzi petroliferi. Ma proprio oggi a Vienna, l’Italia ha anche respinto la richiesta di proteggere la missione Onu a Tripoli. “Ci concentreremo solo sulla protezione della nostra ambasciata” di prossima riapertura, ha detto il ministro Paolo Gentiloni dall’Austria.
Dopo mesi di grida di battaglia mai concretizzate e spesso smentite, oggi il Corriere della Sera parla della decisione del governo di non inviare truppe in Libia. Non viene smentito. Nemmeno per proteggere la missione Onu ci saranno soldati italiani. Uno dei paesi che invece se ne occuperà è il Nepal. L’Italia ha infatti declinato l’offerta al pari di altri Stati europei, spiega il ministro degli Esteri da Vienna.
Ma ciò che ha disvelato la linea del governo di Roma è in realtà avvenuto il 25 aprile scorso. Bisogna tornare a quella data per trovare il primo segnale del fatto che la linea “interveniamo solo se lo chiede al Serraj” non avrebbe retto.
Nel giorno della festa della Liberazione dal nazi-fascismo, il premier libico avanzò la sua prima richiesta di aiuto. Ma non andava bene, evidentemente. Con una nota del suo consiglio presidenziale, Al Serraj chiedeva all’Onu aiuto per presidiare i pozzi petroliferi in Libia, minacciati dall’Isis. Un appello che fece sobbalzare i media di tutto il mondo occidentale. D’un colpo il mondo sembrava proiettato nel vortice di una guerra in Libia. Non era così. E al Serraj è stato corretto.
Il governo italiano reagì sostenendo che mai alcuna richiesta ufficiale di aiuto era arrivata da al Serraj a Roma. E che la nota diffusa all’indirizzo delle Nazioni Unite non poteva essere considerata tale. Oggi, fonti di governo, spiegano che in realtà quella dichiarazione di al Serraj era stata ispirata da britannici e francesi, da sempre più interventisti dell’Italia e di altri paesi della coalizione anti-Daesh. Fatto sta che la prima richiesta di aiuto del nuovo premier libico è stata lasciata decantare. L’Italia non era pronta all’invio di truppe, scelta probabilmente scivolosa dal punto di vista del consenso interno al governo. E come l’Italia non lo erano altri partner importanti della coalizione internazionale, come gli Usa.
Anche se, c’è da dire, solo il 18 gennaio scorso il ministro Gentiloni aveva assicurato che l’Italia è “pronta” a collaborare in eventuali operazioni militari in Libia, “se richiesto”. Lo aveva fatto in conferenza stampa a Bruxelles, al termine del consiglio Affari esteri e dopo che il ministro della Difesa tedesco Ursula von der Leyen aveva annunciato di non escludere l’invio di soldati in Libia. La ministra tedesca “ha usato un linguaggio che usiamo da settimana tra Paesi alleati sulla Libia”, diceva Gentiloni, e cioè che “se ci verrà richiesto siamo pronti a dare un contributo e se questo sarà anche da parte della Germania, l’Italia ne sarà compiaciuta”. Salvo poi però avvertire che “il governo non si farà trascinare da avventure militari pericolose per la sicurezza nazionale”, questo è Gentiloni alla Camera il 9 marzo scorso.
Corretto al Serraj, è andato avanti lo sforzo diplomatico che oggi Matteo Renzi esalta: “E’ importante sottolineare come l’attenzione specifica sulla Libia sia utile per pacificare l’intera area del Mediterraneo e non solo per ridurre il numero di profughi e di arrivi in Europa. Sottolineo la straordinaria importanza dell’azione diplomatica della comunità internazionale guidata dal ministro Gentiloni”.
Escluso un intervento di terra in Libia, si aspetta che il premier designato dall’Onu riesca a creare “rapidamente un comando unificato per coordinare la lotta a Daesh”, per poi decidere in quali forme mandare truppe ad addestrare le milizie libiche. Un quadro nel quale rientra a pieno titolo il comandante libico Khalifa Haftar, sostenuto dall’asse franco-tedesco, vero ostacolo finora al pieno riconoscimento del governo al Serraj in tutta la Libia e ora invece dialogante anche per effetto di un riavvicinamento dell’Italia all’Egitto di al Sisi, dopo le tensioni intorno al caso Regeni. “Cercheremo di rafforzare l’accordo politico, per combattere contro l’Isis, incluso il generale Haftar, ma serve il riconoscimento pieno” del governo di unità nazionale, ripete ancora una volta oggi Gentiloni.
Il risultato concreto è che per ora la comunità internazionale si impegna a vendere armi alla Libia, oltre che aiuti umanitari e sostegno. Recita la dichiarazione finale della conferenza di Vienna: “Il Governo di concordia nazionale ha espresso la sua intenzione di presentare richieste appropriate di eccezioni all’embargo sulla vendita di armi al Comitato sanzioni sulla Libia per procurarsi le armi letali e il materiale necessari per contrastare i gruppi indicati come terroristi dall’Onu e per combattere Daesh nel Paese. Noi sosteniamo pienamente questi sforzi”. E la nota continua: “Garantire la sicurezza e difendere il Paese dal terrorismo deve essere il compito di forze nazionali unificate e rafforzate. I libici devono combatterlo con unità”.
Dopo mesi e mesi di voci e smentite sull’intervento militare, questa ipotesi scompare ma non cancella le opacità di tutta la questione libica.