Di Angela Caporale
Ci si è mai chiesti se il modo e il metodo con cui studiamo la Storia non abbia portato, più o meno in maniera diretta, alla crescita di xenofobia e pregiudizi nei confronti di migranti e rifugiati? Talmente abituati a considerare l’Europa come orizzonte geografico e morale della propria identità, diventa complesso anche semplicemente raccogliere le informazioni e le conoscenze che abbiamo sul “resto del mondo”.
Eppure il resto del mondo non si può certo ridurre a una manciata di persone: come osserva Lorenzo Ferrari in un articolo apparso su Il Post, “abbiamo una conoscenza molto fragile e precaria dell’Asia e dell’Africa (ma anche di certe zone dell’Europa e del Sudamerica). E usiamo quelle poche cose che sappiamo per costruirci sopra un intero immaginario: hai voglia a spiegare agli stranieri che l’Italia non è solo pizza, pasta e mafia; facciamo la stessa cosa noi col loro Paese. E siccome disponiamo solo di quei pochi elementi per costruirci attorno un mondo, quelli finiscono per assumere un peso spropositato nell’immaginario.”
Se, da un lato, è naturale utilizzare gli elementi a nostra disposizione per costruire una rappresentazione complessa di persone che non conosciamo con cui relazionarci, dall’altro questa tendenza non può che portare alla cristallizzazione di pregiudizi, stereotipi e interpretazioni che contrastano non soltanto con la realtà del resto del mondo, ma anche con la velocità del cambiamento che sta coinvolgendo soprattutto l’Africa e l’Asia. Anche i reportage di Tiziano Terzani e Ryszard Kapuscinski a cui siamo affezionati appartengono ormai ad un altro tempo e poco rispondono alle molteplici realtà che animano il Sud del mondo. Storia, usanze e tradizioni di Paesi come la Nigeria, il Pakistan o il Cile diventano appannaggio di specialisti e tecnici, appassionati di una singola nicchia che passa completamente inosservata sui canali mainstream.
Se si trattasse, poi, semplicemente di una questione di interesse personale, non finirebbe a rappresentare un problema reale e concreto. Tuttavia, quella che può sembrare una visione semplicistica del diverso, si ripercuote poi su atteggiamenti e politiche nel momento in cui una parte del resto del mondo viene a contatto con l’Europa. Ecco allora che le migrazioni da fenomeno naturale e innato si trasformano in qualcosa di cui avere paura.
Jonathan Even Zohar, membro dell’EUROCLIO – European Association of History Educators, intervenuto alla UNITED Conference “Moving Stories – Narrative of migration crossing Europe”, ha sottolineato come “esclusi gli uccelli, siamo la specie che più migra: siamo andati fin sulla luna! Ci piace muoverci.” Tuttavia, anche nei libri di Storia, siamo abituati a veder prevalere il senso di orgoglio nazionale rispetto ai mutamenti e agli spostamenti. Storia e attualità si limitano a presentare una prospettiva fortemente eurocentrica, anche quando si parla di Paesi lontani e storie esotiche sarà sempre il punto di vista “occidentale” ad essere presentato attraverso pensatori e studiosi appartenenti ad una determinata cultura e mai autoctoni. Sui banchi di scuola si susseguono storie di eroi e conquiste, di sofferenze subìte e riscatti in cui i protagonisti sono sempre gli occidentali, mentre le migrazioni vengono presentate soltanto sotto la lente della tolleranza verso le minoranze o verso le differenti religioni.
In questo modo, la metodologia di insegnamento della Storia anziché aiutare le nuove generazioni a comprendere a fondo argomenti e motivazioni di retorica e politica (che utilizza in maniera costante elementi storici), rafforza un approccio eurocentrico. “L’Europa è diventata dipendente dalla sua stessa Storia“, spiega Even Zohar, al punto che non ci occupiamo quasi per nulla della Storia globale pur vivendo in un mondo globalizzato e interconnesso. Da questo approccio derivano idee come la presunta incompatibilità tra democrazia e Islam, l’esportazione dello stato di diritto e della democrazia, la primazia dei valori giudaico-cristiani.
In questo contesto in cui la Storia viene costantemente utilizzata nella retorica politica anti-immigrati, lo studio della disciplina storica e, più in generale, la ricerca intellettuale e accademica assumono un ruolo fondamentale per promuovere una narrazione differente. “In primo luogo – osserva Even Zohar – è importante sottolineare il fatto che la mobilità umana è un fattore costante nella nostra storia biologica e culturale. In secondo luogo, dobbiamo tenere sempre in considerazione che esistono condizionamenti ambientali rilevanti e che dobbiamo andare a scavare oltre il nazionalismo del 19esimo secolo, discutendo i concetti che costruiscono l’identità e la memoria comune“.
Oggi, in Europa, proprio le Università possono diventare questo spazio comune di discussione e comprensione reciproca, attraverso una lente storica e culturale, dell’altro. I primi passi in questa direzione sono stati mossi proprio in Italia in questi giorni: l’iniziativa U4Refugees permetterà a studenti e ricercatori con un percorso già avviato nei loro Paesi di avere un’accoglienza umanitaria ed educativa in Europa. Si tratta del primo esperimento di “corridoi educativi” in Europa, dove la mobilitazione del mondo accademico per accogliere richiedenti asilo e rifugiati è diffusa in maniera trasversale.
Thomas Piketty, Alain Badiou, Frédéric Lordon insieme ad altri intellettuali francesi hanno firmato un appello per promuovere una “nuova concezione dell’accoglienza” che passi proprio dalle Università. Vi è una certezza fondante: “la lingua e la conoscenza sono i fondamenti della dignità e della ricostruzione di sé“. In questo modo diventa possibile ricreare uno spazio comune libero e aperto che possa superare i pregiudizi e indebolire i residui di un approccio storico fortemente eurocentrico a favore del dialogo, del dubbio e della discussione, elementi – tra l’altro – fondanti la democrazia.