di Bruna Iacopino
Via Cupa è una stradina minuscola a due passi dalla stazione Tiburtina, a Roma. Se guardi intorno tra la tangenziale, la stazione e l’immenso cimitero del Verano, quasi scompare, sommersa dal traffico caotico di una città che non dorme mai. Eppure si apre in un grande sorriso di fronte ad ogni straniero che incontra. Il sorriso è quello dei volontari del Baobab, gli stessi che lo scorso anno sono rimbalzati agli onori delle cronache per aver gestito in maniera autonoma ma efficace, contando sulla solidarietà di cittadini e associazioni, quella che stava assumendo i tratti di una vera e propria emergenza umanitaria: le migliaia di persone arrivate a Roma dopo un viaggio della speranza e accalcate ai margini della stazione Tiburtina nel tentativo di prendere un treno per approdare al Nord Europa.
In via Cupa ci arrivo verso l’ora di pranzo di una mattina assolata, quasi estiva. Dopo che il centro è stato definitivamente sgomberato nel dicembre dello scorso anno i volontari hanno deciso di mantenere un presidio fisso per gli stranieri “transitanti” nella Capitale che hanno ancora quella via come punto di riferimento, a volte l’unico. Una fila di piccole tende sta addossata contro il muro di quello che era il vecchio centro Baobab, lo stesso che lo scorso anno ha accolto, sfamato e accompagnato lungo il viaggio più di 30mila persone e che oggi è uno stabile vuoto. I volontari invece stanno in mezzo, sotto il gazebo da cui pende un cartello sbiadito dalla pioggia ma che dà il benvenuto in varie lingue.
C’è chi ancora dorme dentro le tende, chi invece è andato al bar a sedersi ai tavoli fuori, magari per usare il bagno e darsi una rinfrescata. Finita l’emergenza freddo i posti al coperto disponibili non sono sufficienti e allora bisogna arrangiarsi come si può. «C’è chi rimane con noi 10-15 giorni, a volte un mese, ma tutti vogliono andar via», mi dicono. Presso il gazebo i transitanti possono ancora trovare assistenza medica o legale, grazie alla rete di associazioni e ong che già dallo scorso anno si sono strette attorno al centro, un pasto caldo e in ogni caso una faccia amica. Sono soprattutto etiopi ed eritrei, una trentina in tutto in questo momento, solo in attesa di poter continuare il viaggio verso il Nord Europa dove magari li attende un parente, un amico.
I tentativi di ottenere un nuovo spazio, compresa l’occupazione (durata ben poco) dell’ex Ittiogenico sempre in zona Tiburtina, non hanno ancora portato a una soluzione alternativa e i posti riconosciuti ai cosiddetti transitanti nella Capitale sono appena 78, denunciano i volontari che il 10 maggio hanno anche tenuto una conferenza stampa alla Camera per chiedere con forza che venga garantita un’accoglienza degna a chi è solo di passaggio.
Per ora non si può far altro che presidiare e rimanere in attesa di una risposta da parte delle istituzioni sperando che l’emergenza verificatasi fra giugno e settembre del 2015 non abbia a ripresentarsi con le stesse dimensioni.
A turni i volontari, si alternano tra mattina e pomeriggio: c’è chi prepara il pranzo, a casa propria e lo porta, c’è chi pensa alla colazione, mentre ancora, la solidarietà della società civile che tanto ha fatto nei mesi scorsi, contribuisce con borse cariche di vestiti e scarpe.
«Siamo ancora in emergenza… per quanto tempo potrà durare?», commenta una delle volontarie. Ma è il momento di distribuire i piatti, ci si penserà dopo.
Baobab Experience, si riparte
Chi da giugno o da settembre ha deciso di mettere a disposizione tempo ed energie in questa gara di solidarietà giocata dal basso si è anche dato una veste formale costituendosi in associazione col nome di “Baobab Experience”, ufficialmente lanciata durante una tre giorni tenutasi dal 29 aprile al 1° maggio presso la Città dell’Altra economia dal titolo “Pensare migrante”. Occasione per dibattiti, proiezioni, incontro e confronto tra le diverse realtà di volontari e attivisti che da Nord a Sud lavorano a stretto contatto con migranti e richiedenti asilo. Da quella tre giorni è scaturito anche un documento firmato da onlus e associazioni, giusto per ribadire – se ce ne fosse ancora bisogno – che la politica dei muri e dei confini va respinta senza condizioni e che l’accoglienza è un principio irrinunciabile senza distinzione di sorta tra chi è costretto a partire per avere salva la vita e chi semplicemente cerca un futuro migliore.