Si può cogliere un solo, clamoroso, errore di “ortonomia” nel disegno di legge recante «Disposizioni in materia di contrasto al fenomeno delle intimidazioni ai danni degli amministratori locali». Per il resto, il provvedimento normativo appena approvato in Commissione Giustizia del Senato non può che essere valutato con favore da parte di chi si pone al fianco di quegli esponenti politici, di quei pubblici ufficiali e di quei magistrati che ogni giorno, nelle periferie più o meno estreme di questo Paese, danno forza provvidenziale alla nostra democrazia, respingendo le pressioni di nuovi e vecchi potentati criminali. Sempre più spesso, infatti, i singoli componenti di “un corpo politico, amministrativo o giudiziario” sono fatti oggetto di intollerabili atti intimidatori, semplicemente per aver compiuto il proprio dovere al servizio delle Istituzioni, per aver preteso il rispetto della legge, per non aver accettato logiche clientelari o di scambio.
La cronaca quotidiana registra il vasto repertorio delle minacce agli amministratori locali che vanno dalle aggressioni fisiche o verbali alle lettere minatorie, dagli avvertimenti via telefono o attraverso i social media agli incendi di autovetture, dai danneggiamenti di beni personali sino all’uccisione di animali domestici. Nella sua sistematicità, il ddl Lo Moro (dal nome del suo primo firmatario) fornisce nuovi strumenti di tutela per quanti rappresentano con lodevole coraggio la Pubblica Amministrazione, l’Autorità Giudiziaria e gli Enti Locali, introducendo una opportuna modifica dell’art. 338 c.p. che configura il reato di “violenza o minaccia ad un Corpo politico, amministrativo o giudiziario”; la possibilità di arresto in flagranza per chi commette tale delitto; una più efficace salvaguardia dei candidati alle competizioni elettorali locali.
Un baco insidiosissimo si è però insinuato, come ormai noto, nell’enunciato di cui all’art. 3 del progetto di legge laddove si prevede una inedita circostanza aggravante ad effetto speciale (con aumento di pena da un terzo alla metà) per i reati di lesione personale, violenza privata, minaccia, danneggiamento e, per l’appunto, diffamazione, «se il fatto è commesso ai danni di un componente di un corpo politico, amministrativo o giudiziario a causa dell’adempimento del mandato, delle funzioni o del servizio». In caso di approvazione definitiva di siffatta riforma, il giornalista che fosse ritenuto penalmente responsabile per aver offeso, con le sue critiche sferzanti, la reputazione di un Sindaco, rischierebbe una pena a dir poco esorbitante. La norma, così come formulata, si presta obiettivamente ad interpretazioni ed applicazioni devastanti per la libertà di informazione. Non è necessario, tuttavia, invocare la totale abrogazione di questo stralcio del provvedimento in esame. E forse – sia detto con la massima onestà intellettuale – è parimenti eccessivo intravedere, in questo svarione legislativo, la volontà di introdurre scientemente un ulteriore “bavaglio” alla stampa.
L’errore, per quanto grave e macroscopico nella sua portata, è verosimilmente ben più banale nella sua matrice. In effetti, il testo normativo difetta di un esplicito richiamo al comprovato intento da parte del reo di ledere l’immagine altrui, al fine di attuare un preordinato piano intimidatorio e ritorsivo. Basterà una più razionale e dettagliata qualificazione giuridica del dolo specifico che connota la fattispecie per assicurare, da un lato, una più severa repressione di quelle vili campagne denigratorie a cui anche le mafie ricorrono, assai di frequente, per delegittimare i propri avversari istituzionali; senza ostacolare, sotto altro profilo, il prezioso lavoro di quei giornalisti-giornalisti che perseguono l’unico ed eminente scopo di raccontare, lealmente, la realtà che li circonda. D’altro canto, la stessa rubrica del nuovo art. 339 bis c.p. (che attraverso la novella legislativa verrebbe ad essere inserito nel nostro ordinamento) fa già riferimento alla presupposta «natura ritorsiva» della condotta intimidatoria contro gli amministratori locali che certo giustifica, in linea di principio, un trattamento sanzionatorio tanto grave. C’è ancora spazio e tempo, dunque, per riparare a questa gaffe del legislatore. In fondo è vero che la più grande saggezza non sta nel non commettere errori ma nel saperli riconoscere e nel porvi prontamente rimedio.