Il 3 maggio è la giornata mondiale della libertà di informazione. Come il 1° Maggio è la Festa del lavoro e l’8 marzo la Giornata internazionale della donna. E potremmo andare avanti a lungo con le commemorazioni civili. Perché celebriamo queste ricorrenze? Ma soprattutto, officiare queste date serve a ricordarci che un diritto è stato acquisito o che, al contrario, siamo ben lontani dal raggiungimento dell’agognato obiettivo?
In Italia è del 39,1% il tasso di disoccupazione giovanile, una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale, e siamo sprofondati al 77° posto nelle graduatorie internazionali sulla libertà di informazione.
Non c’è niente da festeggiare pertanto, semmai da riflettere sulla nostra profonda arretratezza, studiarne le ragioni e individuare le possibili soluzioni per ridurre drasticamente le diseguaglianze e conquistare più diritti.
Ma veniamo alla ricorrenza del 3 maggio. L’ingloriosa posizione nelle classifiche sulla libertà di stampa non è purtroppo un fatto nuovo. Oscilliamo da anni tra il 50° e il 77° posto ma restiamo fanalino di coda dell’Ue (che è comunque l’area in cui c’è maggiore tutela dei giornalisti), seguiti soltanto da Cipro, Grecia e Bulgaria.
Le graduatorie ovviamente vanno interpretate e non prese come verità inviolabili ma sono quantomeno la spia di un problema non più rinviabile.
Perché siamo caduti così in basso? Cos’è che rende, per Reporter sans frontières, la nostra informazione “partly” e non “totally” free?
Alcuni cifre possono aiutarci nell’analisi:
21 sono gli anni che attendiamo una legge sul conflitto di interessi da quando si è avvertita l’urgenza di una normativa che impedisca ad un esponente politico con una posizione d’influenza nei media di utilizzare il potere acquisito pro domo sua.
15.000 sono i giornalisti che hanno un lavoro stabile a fronte di quasi 60.000 persone che operano a vario titolo nel settore (la triste conferma che quello del giornalista è un lavoro sempre più precario).
135 è il numero dei giornalisti minacciati e intimiditi in questi primi mesi del 2016 secondo quanto riportato dall’Osservatorio di Ossigeno per l’Informazione.
Poi ci sono le cosiddette “querele temerarie”, uno degli strumenti più utilizzati per tentare di silenziare i giornalisti (ne sanno qualcosa i colleghi di “Report” o più recentemente gli indagati Nuzzi e Fittipaldi per l’inchiesta Vatileaks 2): chiedere ad un cronista una cifra esorbitante come risarcimento per una presunta diffamazione serve spesso non ad ottenere un risarcimento (un atto dovuto se la diffamazione è provata) ma a scoraggiare chi fa informazione ad occuparsi di un determinato tema.
E non risollevano certo le sorti della libertà di informazione i governi che si sono succeduti in questi anni (compreso l’attuale) che non hanno mai smesso di condizionare la gestione del servizio pubblico televisivo.
Minacce, intimidazioni, censure (e autocensure), bavagli, precarietà, leggi mancate… Sono tanti i fattori che concorrono al deficit di libertà dell’informazione. Un disavanzo a cui purtroppo contribuiscono spesso gli stessi operatori dell’informazione che hanno perso di vista la missione del loro lavoro come servizio, bene comune, ricerca della verità, indipendenza del giudizio. Risaliremo qualche posizione preziosa in classifica anche quando il ruolo dei giornalisti sarà quello di “watchdog”, cani da guardia del potere, e non cani da riporto…