Nel giorno in cui ricorreva il quarto mese dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, ritrovato morto il 3 febbraio con evidenti segni di tortura sul corpo, in un commissariato di Al Wayli, ad ovest della capitale egiziana, un uomo sotto la custodia della polizia moriva senza un apparente spiegazione. A raccontarlo oggi il quotidiano locale indipendente “Al Masry el Youm”, secondo cui l’uomo, di cui non sono state diffuse le generalità, sarebbe stato percosso a morte. Una fonte della sicurezza interna aveva riferito in un primo momento che il prigioniero era deceduto in seguito ad un arresto cardiaco nell’ospedale di Dar al Shefaa, nel distretto di Abbasyia. Ma il referto medico rileverebbe segni di percosse e di torture. La procura del Cairo occidentale, nel frattempo, ha ordinato che il corpo resti all’obitorio in attesa di ulteriori esami. Un video divenuto virale su siti web e sui social network mostra alcuni agenti mentre colpiscono l’uomo, di circa 50-60 anni, e suo figlio prima di portarli all’interno della stazione di polizia.
Si sente il giovane che grida “Non avete alcun mandato di arresto. Perché lo state portando via? Oh infedeli” e subito dopo si vedono gli agenti ammanettare anche lui per poi trascinare via entrambi. Secondo il giornale che ha pubblicato la notizia, l’arresto sarebbe avvenuto per una contesa su una proprietà edile. Inevitabile pensare oggi, nonostante le differenze del caso, al trattamento riservato al ricercatore italiano arrestato e ucciso per cause non ancora accertate. Ma sulla matrice del delitto non ci sono grandi dubbi. Almeno per Amnesty International, Human rights watch e altre organizzazioni per i diritti umani che ritengono Regeni vittima di apparati dei servizi che abitualmente usano la tortura nelle carceri e nelle stazioni di polizia egiziana.
Sul caso si è espresso nelle ultime ore il ministro degli Affari esteri e della cooperazione internazionale Paolo Gentiloni il quale ha assicurato che nell’ultimo periodo c’è stata una ripresa di contatti delle autorità del Cairo con la Procura di Roma, garantendo che l’Italia avrebbe deciso il da farsi “anche sulla base dello sviluppo di questa collaborazione”.
Ci vorranno ancora un paio di settimane per avere una traduzione completa degli atti trasmessi dall’Egitto in merito alla morte di Giulio Regeni.
Da piazzale Clodio non escludono che possano essere inoltrate nuove richieste. Chi indaga nella Capitale ribadisce che spetta agli egiziani svolgere accertamenti e verifiche sul campo.
Allo stato della rogatoria avviata il 14 aprile finora non è arrivato tutto il materiale annunciato, ma solo i “due terzi”. Molti dei documenti sono, inoltre, manoscritti in arabo degli interrogatori condotti dalla polizia del Cairo. Nel carteggio sono anche presenti i tabulati dei controlli del traffico telefonico nella zona in cui era scomparso Regenj e i referti della autopsia eseguita sul corpo del giovane e sui cinque presunti banditi, uccisi dalla polizia durante un tentativo di arresto, che potrebbero aver avuto a che fare con la sua morte.
Nonostante le pressioni dei mesi scorsi del governo italiano, arrivato a richiamare l’ambasciatore italiano in Egitto per consultazioni, gli egiziani non hanno mai dimostrato di avere l’intenzione di fornire una ricostruzione credibile di quanto avvenuto al nostro connazionale.
Anzi, chiunque abbia tentato di far luce sul caso ha subito ritorsioni ed è finito in carcere, come nel caso di Ahmed Abdallah, presidente della Commissione per i diritti umani e consulente della famiglia Regeni.
Ma il regime non si è limitato a questo. Nei giorni scorsi sono stati arrestati svariati giornalisti locali e anche colleghi stranieri sono stati fermati dalla polizia per poter essere costretti a lasciare il paese. Ad altri è stato invece negato a priori il visto. Come nel caso di Remy Pigaglio, per il quale Reporter senza frontiere è intervenuta per chiedere al Cairo le ragioni per le quali è stato impedito l’ingresso nel paese al giornalista francese.
Per la responsabile di Rsf in Medio Oriente, Alexandra El Khazen, le circostanze fanno pensare che sia in atto un tentativo di intimidazione nei confronti di tutti i corrispondenti stranieri al Cairo.
“Si tratta di un segnale molto preoccupante per i media stranieri, per non dire altro” ha dichiarato la Khazen.
Reporter senza frontiere ha ricordato che Pigaglio, che ha lavorato in Egitto dal 2014, è tornato nel paese il 23 maggio dopo una vacanza in Francia e aveva un visto valido e credenziali di stampa.
Passaporto e telefono di Pigaglio sono stati confiscati al suo arrivo in aeroporto dalla polizia anti-immigrazione.
Prima che il suo telefono fosse preso era però riuscito a inviare un messaggio a colleghi al Cairo per riferire quello che stava accadendo. Il giornalista è stato trattenuto in aeroporto per 30 ore senza essere ascoltato e senza ricevere spiegazioni per il trattamento che gli era stato riservato per poi essere rispedito nel suo Paese. Nonostante l’intervento dell’ambasciata francese non è stato possibile impedire il rimpatrio.