Mai come nell’ultimo anno si è registrata nel mondo dell’informazione un’escalation di minacce, agguati e vittime. Già dieci da inizio anno. Nella Giornata mondiale della libertà di stampa, che si celebra il 3 maggio, gli ultimi dati diffusi da Committee to Protect Journalist sugli attacchi ai cronisti sono a dir poco allarmanti.
Secondo l’ong, che ha sede a New York ma si avvale di uffici e reti di corrispondenti in tutti e cinque i continenti, il 2015 è stato caratterizzato da un aumento accentuato del numero di colleghi uccisi, ben 72 rispetto ai 24 del 2000.
Il Paese più pericoloso si è confermata la Siria, dove gli omicidi di giornalisti sono stati almeno 14.
In aumento a livello globale anche le incarcerazioni. Oggi i cronisti in prigione sono 200 mentre nel 2000 erano 81. Il Paese dove le condanne sono più frequenti è la Cina (49), seguita da Egitto (23), Eritrea (17), Turchia (14) ed Etiopia (10).
Il Committee to Protect Journalist ha pubblicato anche una classifica generale sulle limitazioni alla libertà di stampa. La maglia nera va all’Eritrea, seconda la Corea del Nord, terza l’Arabia Saudita. Ed è per questo che oggi il Global press free day, istituito nel 1993 per sottolineare l’importanza dell’indipendenza della stampa quale valore “essenziale alla costruzione di una società libera e democratica”, assume una valenza ancora maggiore
Un diritto fondamentale, dunque, prerequisito per la protezione e la promozione di tutti gli altri diritti umani.
Ed oggi, più che mai, è giusto ricordare i tanti colleghi imprigionati, perseguiti e uccisi solo per aver cercato di raccontare storture e violenze dei regimi che ancora in tante parti del mondo vessano le proprie popolazioni.
Ognuno di noi che scrive o racconta in autonomia storie difficili, dimenticate, che magari non fanno audience, e che ha scelto di non sottostare a imposizioni e logiche di share sa bene quanto l’esercizio della professione di giornalista, e il diritto a farlo autonomamente, non sia automatico ma necessiti di un ambiente sicuro, nel quale tutti possano parlare liberamente e apertamente, senza timore di rappresaglie.
Ciò vale soprattutto per quei colleghi che operano in contesti dove queste garanzie non sono affatto scontate. Ed oggi, celebrando tutti coloro che nonostante i rischi continuano a portare avanti con determinazione e coraggio il proprio impegno professionale, trovo giusto ricordare quei colleghi che per la loro voglia di raccontare vicende e notizie ‘scomode’ hanno sacrificato la propria vita.
Ed è inevitabile, almeno per la sottoscritta, non pensare in queste ore a Tim Hetherington, un giornalista straordinario, un amico, che in circostanze drammatiche ha perso la vita per dare voce a chi non l’aveva.
Forte, integro e con una spiccata sensibilità, non era soltanto un fotoreporter in gamba, era un collega solidale. Quando arrivava sul campo un nuovo inviato, mai stato prima in una zona di guerra, non esitava a dargli consigli.
Era una persona che si poteva ‘solo’ amare. A chiunque, e dovunque, Tim piaceva. Da subito. Appena dopo averlo incontrato era scontato che suscitasse simpatia, si instaurava un feeling immediato.
Ed è così che lo ricordo.
Quando nell’aprile del 2011, a soli 41 anni, è stato colpito a morte da un proiettile shrapnel di un mortaio in Libia, nell’inferno di Misurata, ho perso un amico e un riferimento importante. L’empatia che dal primo momento era scaturita tra noi, quando lo avevo incontrato nell’ottobre 2010 a Londra, ha contraddistinto da subito il nostro legame, saldato dalla passione per i diritti umani.
“Ciò che faccio, ogni scatto, ogni fotogramma di reportage che monto, mi coinvolge a livello emotivo”, mi disse quando parlammo del suo contributo alla campagna di Human Rights watch sulla crisi in Darfur, che coinvolgeva anche me.
Oggi, rileggendo quanto diceva Tim, ritrovo l’essenza del sacrificio di coloro che hanno dato o rischiano la vita ogni giorno per fare informazione e per raccontare la realtà così come si presenta, senza filtri e senza censure.
Descrivere i fatti, denunciare abusi, violazioni di diritti umani e alzare la cortina di silenzio che copre spesso notizie che non trovano spazio sui media di massa, è ciò che da’ un senso all’operato di qualsiasi giornalista. O almeno dovrebbe essere.
Ma non è così per tutti. Il nostro sistema giornalistico è condizionato da logiche che poco si conciliano con situazioni e realtà che non fanno audience o che, quando va bene, trovano spazio tra le brevi perché, è il pensiero distorto di tanti, nessuno le leggerebbe.
È per questo che sin da giovanissima, quando muovevo i primi passi in una piccola radio privata, ho sempre avuto come ideale il giornalismo anglosassone. Non certo per snobismo, ma perché non trovavo alternative valide. Negli Stati Uniti, come nel Regno Unito, da sempre i media svolgono un ruolo estremamente importante nella tutela dei diritti umani. Garantiscono visibilità a chi denuncia le violazioni a danno delle minoranze o delle fasce deboli e fungono da cassa di risonanza per tutte le voci, anche quelle indigeste ai poteri forti, affinché possano essere ascoltate.
Quando colleghi animati da questi ideali sono consapevoli di rischiare sulla propria pelle, come Tim e James Foley, ucciso dall’Isis in SIria, difficilmente si tirano indietro.
Non ho mai incontrato Jim, ma ho avuto la fortuna di conoscere Tim e altri giornalisti che di fronte a situazioni di grande criticità e questioni off-limits non si sono arresi.
Da loro ho imparato che bisogna avere la forza di denunciare le vessazioni e gli abusi che avvengono in qualsiasi luogo perché lasciare che essi rimangano nel silenzio e siano perpetrati impunemente è, come diceva Martin Luther King, una minaccia per la giustizia ovunque. E proprio pensando a storie e persone come Jim e Tim, alla loro intensa e incondizionata capacità di raccontare le vicende di chi non ha voce, appare ancor più stridente l’indifferenza del mondo dell’informazione italiano nei confronti di temi importanti come i diritti umani e le crisi dimenticate.