C’è un’immagine nell’incipit del primo libro di Giovannino Guareschi dedicato alla saga di Don Camillo che illustra bene l’innocenza di Brescello il paese della bassa reggiana dove è ambientato. È quando Don Camillo dal pulpito, con un “discorsetto generico e ammodino”, rimprovera i fedeli per “un sudicio pasticcio” avvenuto in paese, ad un certo punto, scorge in chiesa il responsabile dei fatti, e interrompendosi lancia un drappo sulla testa del crocifisso perché non senta e solo dopo inizia a strigliare il peccatore con parole “tanto grosse che il soffitto della chiesa tremava”. Niente ora è più lontano da quel ritratto ingenuo e romantico. Il comune del compromesso storico (letterario) è stato prima commissariato, poi sciolto per mafia. Il primo centro nell’Emilia ricca e grassa a fare questa fine. Nell’incipit della relazione prefettizia appena pubblicata in Gazzetta ufficiale, con la firma del presidente Mattarella che ne certifica lo scioglimento c’è tutta la sostanza del cambiamento avvenuto.
A Brescello, è scritto, ci sono “concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti ed indiretti degli amministratori locali con la criminalità organizzata di tipo mafioso e su forme di condizionamento degli stessi”. Un racconto denso di omissis ma sufficientemente ramificato da togliere ogni dubbio. Si parte dal 1982 cioè da quando Nicolino Grande Aracri, capo dell’omonimo clan di Cutro viene mandato al confino a Brescello. Si pensava di renderlo inoffensivo isolandolo dal suo contesto. Accade il contrario. Inizia una massiccia emigrazione dalla Calabria verso Parma e Reggio Emilia e soprattutto verso Brescello. Dei 5500 abitanti del piccolo paese, 1700 sono calabresi. Persone che hanno costruito imprese specialmente nell’edilizia e nell’autotrasporto. Il procuratore antimafia di Bologna, conta 7mila persone fra parmense e reggiano vicine a vario titolo alla ndrangheta, 7 mila voti da spostare alla bisogna. Basterebbe questo a far scattare l’allarme, ma non scatta nulla. A Brescello il problema non è più circoscrivibile alle famiglie mafiose. Il problema è ormai da tempo tracimato. Quando i giornalisti, anche di recente, domandano in paese di anomali episodi avvenuti nel silenzio generale, di incendi dolosi, di terreni pubblici occupati abusivamente da ditte colluse con la ndrangheta, di pregiudicati che si muovono con grande libertà, la popolazione risponde stizzita che la mafia è altrove.
A Brescello, ricordano, ci fu un solo omicidio nel 1992. Un capolavoro di comunicazione quello delle ndrine che in Emilia si muovono bene. Scrive la commissione: la ndrangheta “ha fatto in modo da accreditarsi a Brescello attraverso comportamenti apparentemente innocui, entrando “in punta di piedi” nelle articolazioni economiche e sociali della città e scongiurando così reazioni di allarme sociale che si sarebbero di certo prefigurate in presenza di episodi violenti ed eclatanti”. Un maquillage utile a rendere apparentemente irriconoscibile la mafia che così ha tempo di rosicchiare spazio ed energia alle istituzioni e all’economia sana. Ma la politica cosa fa in un paese di poche anime, dove tutti si conoscono bene? Il giudizio è tranciante: “l’atteggiamento di acquiescenza degli amministratori comunali che si sono avvicendati alla guida dell’ente, nei confronti della locale famiglia malavitosa, si è poi trasformato in una condizione di vero e proprio assoggettamento al volere di alcuni affiliati alla cosca, nei cui riguardi l’ente, anche quando avrebbe dovuto, è rimasto, negli anni, sostanzialmente inerte.”
Il giudizio della commissione riguarda maggioranza e opposizione, ma è chiaro che sotto i riflettori c’è soprattutto una famiglia. Infatti a comandare a Brescello per oltre 2 decenni è stata la famiglia Coffrini. Prima Ermes, sindaco del PCI, poi il figlio Marcello, all’inizio componente della giunta del padre, e poi eletto sindaco in una lista civica appoggiata dal PD. Un autentico regno il loro, lungo nel tempo e passato di padre in figlio. Un fatto che ha dato punti di riferimento certi alle cosche. “Uno degli elementi determinanti è dato dalla sostanziale continuità politico-famigliare che ha visto governare ininterrottamente il comune di Brescello negli ultimi trent’anni da amministrazioni guidate o egemonizzate da esponenti della famiglia (Coffrini ndr). La consorteria ‘ndranghetista presente sul territorio ha trovato nel Comune non solo una continuità di indirizzo politico favorevole ma anche una struttura disponibile e non impermeabile al suo volere.” Non è reato, precisa la commissione, ma fa sensazione che ad effettuare i lavori di ristrutturazione nella casa di Marcello Coffrini sia una ditta che prima di finirli viene interdetta per mafia perché vicina alle cosche. “Ora non è concepibile – si legge nella relazione – che (Marcello Coffrini, ndr) un avvocato, assessore all’Urbanistica di un Comune di appena 5.500 abitanti, non sia al corrente delle contiguità di una ditta locale”. Contiguità che si ripete. Ad esempio quando i ragazzi della web-Tv Cortocircuito intervistano il sindaco Marcello Coffrini che si lascia andare ad un commento su Francesco Grande Aracri, fratello del boss Nicolino. Di lui dice: “È molto composto, educato, ha sempre vissuto a basso livello”. Ben più di una frase infelice da cui divampa una feroce polemica politica, per cui vengono chieste le dimissioni del sindaco, respinte dal consiglio comunale.
Ma imprevedibilmente il sindaco Marcello Coffrini viene supportato da una manifestazione di piazza, dove avviene anche con una raccolta di firme in suo favore. Fra gli organizzatori anche un affiliato alla ndrangheta, e la commissione conterà che fra le firme “Il 20% era imputabile a soggetti vicini o contigui alla cosca di Cutro. Tutte accuse gravi, che stridono col fatto che né Ermes, né Marcello Coffrini siano mai stati indagati per questa contiguità. Ma la commissione prefettizia fornisce molte altre prove a supporto. Dall’approvazione della “variante Cutrello” (il nome deriva dalla fusione dei toponimi Cutro e Brescello), che ha di fatto consentito la costruzione di un intero quartiere abitato da immigrati calabresi, alla realizzazione di un grande supermercato, “programmata e realizzata da soggetti controindicati, senza che l’amministrazione abbia adeguatamente valutato le possibili ingerenze mafiose”. Addirittura ci sono alcuni lavori realizzati per la “Camminata Peppone e don Camillo” una manifestazione pubblica, a cui partecipa anche una ditta colpita da interdittiva antimafia. Ma c’è anche il caso “dell’assegnazione di un alloggio demaniale ad un parente del locale vertice della ‘ndrina, peraltro in passato tratto in arresto per il delitto di estorsione”, e che già occupava abusivamente l’immobile.
Nonostante ciò gli viene inspiegabilmente concesso “in subconcessione, fino al 2013 da quella data ad oggi, anche se il contratto è scaduto, il subconcessionario continua ad occupare la struttura comunale, senza aver mai versato alcun canone all’amministrazione”. Ma il fatto che sconcerta maggiormente è il clima registrato dalla commissione, che riferisce del colloquio con un dipendente comunale che, pienamente consapevole delle indagini in corso e della gravità delle accuse mosse dice: “no comment. Non intendo essere implicato in queste cose. Non intendo dire nulla”. Testimonianza di un’omertà solida che impasta politica e ndrangheta in un unico muro, ostacolo alla legalità e certifica la fine di quell’ingenuità riparo di ogni illegalità.