Ai vertici del Mibact sta stretto anche l’articolo 21

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Innanzitutto un accorato appello, uscito dalla manifestazione dello scorso 7 maggio  “emergenza cultura” con la testimonianza di Maria Vittoria Clarelli, a lungo direttrice della Galleria nazionale d’arte moderna, nonché rappresentante di “Assotecnici”. Si ritiri al senato il pericoloso emendamento firmato (curiosamente) dal presidente della commissione cultura Marcucci che prevede l’allungamento del periodo di esecuzione dell’opera ai fini della sua esportazione legale. Per capirci, dal secondo dopoguerra in poi ogni traffico è possibile. Il luogo del dibattito è la commissione industria e la norma in questione è un nuovo articolo (n.53) apposto al disegno di legge 2085 sulla concorrenza. Tanto per dire: possono involarsi i Fontana, i De Chirico, i Burri, e così via. E’ un incubo?

In quella mobilitazione, fortemente voluta dallo storico dell’arte Tomaso Montanari e tenutasi alla presenza di una cospicua e variegata parte del ministero dei beni e delle attività culturali, erano presenti (tra le altre) personalità come Salvatore Settis e Vittorio Emiliani, ma soprattutto storie drammatiche di emarginazioni e di soprusi. Quello che dovrebbe essere il punto chiave del lavoro intellettuale è ridotto spesso alla quasi povertà e alla sofferenza. Il decreto del presidente del consiglio n.171 del 2014, e il decreto ministeriale n.50 del 2016 ridisegnano, infatti, la struttura del Mibact, negando persino  fisionomia autonoma alle soprintendenze per l’archeologia, il “poliedro” evocato da Bianchi Bandinelli: il tesoro del bel paese, è ridotto a succursale di soprintendenze molto allargate (archeologia, belle arti e paesaggio), comunque dimezzate dalla riforma della pubblica amministrazione della ministra Madia, che dà il potere alle prefetture. Bottai avrà applaudito nella tomba, avendo per di più già ottenuto una insperata vittoria a tavolino sulle linee architettoniche del ventennio. Rivalutate a mo’ di sequenza di un nostalgico ritorno al passato. Che questo accada con il governo Renzi e non sia successo neppure con quello di Berlusconi-Fini è un fatto, sul quale riflettere seriamente. Non solo: basti pensare alla deregolamentazione imposta dallo “Sblocca Italia”, alla faccia della doverosa opera di tutela. E poi, lo schiaffo alla dignità del lavoro. Proprio nel sacrario della cultura si sperimentano forme di schiavitù moderna, essendo i giovani vincitori dello sbandierato concorso costretti a salari da sfruttamento pre-fordista. Pochi, maledetti e neanche subito, visto che lo stato –quando paga- lo fa in ritardo.

Il ministro Franceschini ha preferito il colpo di immagine della gara internazionale per i direttori dei principali musei, con poca cura per il resto. E neppure è chiaro che destinazione avranno le risorse (un miliardo per la cultura, due e mezzo per la ricerca) deliberate con artificiosa spettacolarità il primo di maggio. La realtà materiale è grave e un ministero mai davvero nato è divenuto una piramide gerarchizzata a compartimenti stagni. Fino alla “terza classe” degli archivi e delle biblioteche, forse settori considerati un ingombro del passato. Mentre la società della conoscenza digitale ha bisogno come il pane dei saperi.

Chi ha partecipato alla manifestazione e al seminario preparatorio del giorno precedente ha pure rischiato personalmente. Ai vertici del Mibact sta stretto sì l’articolo 9 della Costituzione, ma anche l’articolo 21 sulla libertà di espressione. Infatti, una gelida circolare mette il bavaglio ai dipendenti. Caro Dario, che è successo? E’ uno scherzo?


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