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Strage Moby Prince, 25 anni di omissioni, depistaggi, bugie e inganni

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Gli anniversari scandiscono il tempo della memoria e rinnovano la tristezza dei ricordi. Ma qualche volta gli anniversari sono anche la rabbia e il tormento di chi è costretto alla terribile consapevolezza che il dolore non trova consolazione se non è coniugato con la verità e la giustizia. E’ così per i familiari e gli amici dei 140 uomini, donne e bambini che la sera del 10 aprile 1991 morirono nella rada di Livorno a bordo del traghetto Moby Prince, trasformatosi in una bara incandescente dopo aver urtato la petroliera Agip Abruzzo. Perché il più grave disastro della marineria civile italiana dopo 25 anni è ancora prigioniero di una nebbia densa e velenosa fatta di omissioni, depistaggi, bugie e inganni. Le inchieste giudiziarie e i processi sono stati in grado di offrire una “verità” fragile e lacunosa, sicuramente difficile da accettare. E cioè che dietro la tragedia del Moby Prince non c’è alcun mistero, ma solo una serie infinita di incompetenze, di fatali coincidenze e, infine, l’errore umano.

E’ stata la tenacia, la forza e la determinazione dei familiari delle vittime a impedire che il “caso Moby Prince”  affondasse nel silenzio, inghiottito nel gorgo oscuro dell’indifferenza e della rassegnazione di un’opinione pubblica ormai abituata ad arrendersi davanti ai grandi misteri di un paese nel quale ambienti torbidi lavorano da sempre per tenere nascoste verità inconfessabili. Così per Ustica, per le stragi di Bologna e di Brescia, così per l’omicidio di Aldo Moro. E sì, perché sono molti, troppi, gli indizi che inducono a credere che quella del Moby Prince sia stata una strage. Un evento tragico che nasconde scenari e responsabilità ancora nascosti. Anche per questo il disastro viene chiamato oggi l’Ustica del mare.

Le associazioni “10 aprile” animata dai figli del comandante Ugo Chessa (morto nel rogo del Moby insieme alla moglie) e “140” guidata da Loris Rispoli che quella sera di aprile di 25 anni fa perse la sorella Liana non si sono mai arrese, non hanno mai smesso di combattere per avere giustizia e verità.

La sentenza di archiviazione della seconda inchiesta fu vissuta dai familiari delle vittime come un doloroso tradimento. L’inchiesta-bis aveva infatti creato un clima di grande speranza, la convinzione che finalmente la magistratura sarebbe riuscita a penetrare il buio groviglio dentro il quale si nascondeva la verità. E invece, nel 2010 arrivò l’archiviazione che consegnò il caso alla tremenda banalità di un incidente navale provocato «dall’errore umano» e da una «concatenazione casuale di eventi». I figli del comandante Ugo Chessa affidarono allora a un team di esperti di ingegneria forense di Milano coordinati da Gabriele Bardazza, la revisione di tutti gli elementi processuali, chiedendogli di rileggerli con l’aiuto di nuove e sofisticate tecnologie. Ed ecco, proprio alla vigilia del 22esimo anniversario del rogo che costò la vita a 140 persone, il colpo di scena.

Due soprattutto gli elementi nuovi che impongono una revisione della ricostruzione degli eventi. Il primo è la posizione del Moby Prince e quella della petroliera Agip Abruzzo la sera del 10 aprile ’91. Rivedendo e filtrando alcuni filmati amatoriali, il perito è riuscito a provare che il Moby speronò la petroliera non uscendo dal porto nella sua rotta verso Olbia, ma tentando di rientrare a Livorno. Il che comporterebbe un interrogativo obbligato: perché Ugo Chessa aveva ordinato l’inversione di rotta? Forse perché era successo qualcosa che poteva aver messo a rischio la sicurezza della nave? Magari una collisione con una terza nave rimasta finora fuori dalla scena? O un’esplosione a bordo? Ipotesi, quest’ultima, tra l’altro suffragata anche dal fatto che nella parte proriera del traghetto erano state trovate tracce significative di un esplosivo militare, il micidiale Semtex.

Di straordinaria importanza anche il secondo elemento scoperto dal perito dei fratelli Chessa: la misteriosa nave Theresa II, che si allontanò a tutta velocità dalla rada di Livorno la sera del 10 aprile 1991, dopo una comunicazione criptica con una sconosciuta “Nave uno”, ha finalmente un nome. «Dalle nostre comparazioni – ha spiegato Gabriele Bardazza – si evince che Theresa II altro non è che è Gallant 2, una delle navi militarizzate americane che quella notte erano impegnate nel trasporto di armi nella base Usa di Camp Darby. Resta da capire il motivo per cui il comandante abbia ritenuto di non utilizzare via radio il proprio identificativo, ma abbia usato un nome in codice. Come resta da spiegare il fatto che i periti del tribunale non si siano mai preoccupati di analizzare a fondo le registrazioni per chiarire chi fosse Theresa II, nonostante nell’inchiesta di questa nave fantasma si sia parlato a lungo». Dunque, la voce misteriosa che comunicò con la “Nave uno” sarebbe quella del comandante greco Theodossiou della Gallant 2.

La scoperta del perito rilancia con forza l’importanza dello scenario nel quale si è consumata la tragedia del Moby Prince. L’avvocato della famiglia Chessa, l’ex magistrato Carlo Palermo, ha detto con un’espressione molto forte che quella sera nel porto di Livorno c’era “una limitazione della sovranità nazionale”. Allusione esplicita alla presenza di almeno cinque navi americane militarizzate che riportavano nell’arsenale di Camp Derby le armi utilizzate nella prima guerra del golfo. Di sicuro c’erano la Gallant II, la Cape Breton, la Cape Flattery, la Cape Farwell e la Edfim Junior. E’ agli atti processuali la testimonianza di un ufficiale della Finanza, Cesare Gentile, che dalla sua motovedetta, mentre si dirigeva verso il luogo del disastro, aveva visto una movimentazione di armi da una delle navi americane.

Impossibile non ricordare che gli americani si sono sempre dimostrati poco collaborativi. Prima tacendo la presenza delle loro navi militarizzate in rada, poi, ammettendo la presenza solo di tre. Solo dopo dieci anni è stato possibile sapere che erano cinque, anche se si sospetta che ce ne fossero anche altre due. E infine il loro negare di essere in possesso di tracciati radar e immagini satellitari della rada di Livorno la sera del aprile 1991. Una circostanza assolutamente non credibile, soprattutto perché sembra impossibile non esistesse un sistema di controllo e sorveglianza della base di Camp Derby e della rada di Livorno nei giorni in cui avveniva il trasporto massiccio di armi e munizioni dall’Iraq.

C’è poi un dato di fatto incontrovertibile, spaventoso, agghiacciante: quella notte nessuno tentò di soccorrere i passeggeri e l’equipaggio del Moby Prince. Ad affermarlo, con tutta la sua autorevolezza, fu l’ammiraglio Giuseppe Francese, ispettore generale delle capitanerie di porto, che in una relazione riservata all’allora  ministro della marina mercantile Ferdinando Facchiano scrisse che “un coordinamento efficace dei soccorsi si è realizzato non prima delle 5 del mattino del giorno 11”. Cioè sei ore e mezzo dopo l’impatto tra il Moby Prince e l’Agip Abruzzo.

Ora la speranza di arrivare alla verità arriva dalla commissione d’inchiesta del Senato che sta scavando tra le carte delle inchieste e analizzando decine di testimonianze, ma anche delegando al Ris dei carabinieri e alla Guardia di finanza approfondimenti di indagine.

Ed ecco alcuni dei punti oscuri che saranno approfonditi dalla Commissione e sui quali indagheranno ora carabinieri e fiamme gialle:

1) Registrazione di una comunicazione radio alle 22:20’10” sul nastro della stazione costiera IPL Livorno radio: “The passenger ship! The passenger ship!” (La nave passeggeri! La nave passeggeri!). Probabilmente parte da una nave in rada e se così non è certo italiana perché è in inglese. L’unica nave passeggeri in quel momento nell’area del porto è il Moby Prince, ma sicuramente non è un messaggio rivolto al traghetto. La comunicazione non è infatti rituale: non c’è infatti un identificativo. Più che altro sembra un allarme, un avvertimento a qualcuno. La circostanza non viene approfondita, non viene soprattutto messa in relazione alla tragedia. Eppure la lettura più logica del messaggio è che si cerca di avvisare qualcuno che il Moby Prince si sta avvicinando a un’area nella quale sta accadendo qualcosa e la sua presenza potrebbe creare problemi.

2) Il cono d’ombra dei tracciati radar della stazione dell’Aeronautica militare di Poggio Lecceta. La stazione si trova su una collina alta 462 metri ed è a poco meno di 10 chilometri di distanza dal porto di Livorno. Consente di osservare sia lo spazio aereo, ma anche i movimenti marittimi nella rada di Livorno. Le commissioni d’inchiesta della Capitaneria e del Ministero ignorano Poggio Lecceta. Se ne accorgono, solo dopo molto tempo, i consulenti del Pm De Franco e della parte civile. Leggendo i tracciati i periti notano un’incredibile anomalia: un’area davanti al porto, proprio quella in cui si è consumata la tragedia, appare invisibile al radar. Nel corso dell’udienza del 22 maggio 1996 del processo di primo grado, il consulente del Pm, Salvatore Fabbricotti, conferma la zona d’ombra. Nell’udienza del 30 maggio il consulente della parte civile Brandimarte conferma il cono d’ombra. Eppure il radar aveva registrato poco dopo le 21 l’uscita dal porto della nave militarizzata Usa Margareth Lykes. Successivamente il radar vede la motonave Adige che segue una rotta simile a quella del Moby Prince per poi virare verso nord e dirigersi a Savona. Viene registrata anche la traccia del traghetto Golfo degli Ulivi, diretto a Olbia. Alle 22:25′ invece quel tratto di mare è una zona buia per i radar.

3) Radar di bordo in tilt.  Subito dopo l’urto tra il Moby Prince e l’Agip Abruzzo, il fumo dell’incendio riduce la visibilità. Tutte le imbarcazioni di soccorso che si muovono in rada sono dotate di radar, ma le strumentazioni impazziscono appena le imbarcazioni superano la diga della Vegliaia. Per i consulenti è un fenomeno incomprensibile. Eloquente la testimonianza del radarista del rimorchiatore  Tito Neri VII, Domenico Mattera, che, arrivato a ridosso dell’Agip Abruzzo vede sparire la sagoma della petroliera: “Il radar è diventato tutto bianco”. Domanda: c’è un legame tra il cono d’ombra rilevato a Poggio Lecceta e l’oscuramento dei radar?

4) L’elicottero. La teste Marcella Bini (con la figlia Giulia Campi) alle 22:25 del 10 aprile 1991 vede da casa sua bagliori in mare. Dopo vedono un elicottero volare sul tratto di mare nel quale è avvenuta la collisione e poi volare verso nord. Anni dopo, quando infuriano le polemiche sui soccorsi e le autorità affermano che è stato impossibile far intervenire mezzi aerei, la Bini si presenta dal pm. In udienza, il 26 gennaio 1996, conferma la presenza dell’elicottero e dice che la vista dell’elicottero l’aveva fatta desistere dal lanciare l’allarme per quanto vedeva in mare (“I soccorsi sono già arrivati”).

Anche il teste Massimo Vernace (di guardia all’Accademia) dice di aver visto un elicottero (27 aprile 1993) intorno alle 23. Ulteriore conferma arriva dall’avvisatore marittimo. Aeronautica militare, Marina e Vigili del fuoco negano che sia decollato un loro elicottero la sera dell’11aprile. Viene anche spiegato che in ogni caso esistono tempi tecnici di mobilitazione del personale, allestimento del velivolo e viaggio e l’orario in cui viene visto il misterioso elicottero non è compatibile con queste procedure. La teste Bini indica l’orario 22,40-22,45 il momento in cui vede l’elicottero e l’avvisatore marittimo è preciso nell’indicare l’ora in cui parte l’allarme: 22:31. L’elicottero misterioso sorvola la zona della tragedia tra i 9 e i 14 minuti successivi all’allarme via radio. Il che significa che non è decollato dopo l’allarme, ma era già lì.

Molti elementi fanno pensare a un elicottero militare con i trasponder spenti. A Camp Darby ci sono elicotteri, ma gli americani negano che esista un sistema radar. Per cui non hanno visto cosa è accaduto in rada e non possono seguire i loro velivoli. Davvero poco credibile.

5) Il Semtex.  Nei locali motore dell’elica di prua vengono trovate tracce di esplosivi (Alessandro Massari, Criminalpol): di uso civile e militare (i micidiali T4 e Semtex). E anche i segni di una potente esplosione. Secondo gli esperti della Marina militare (Mariperman) l’esplosione sarebbe stata provocata dai gas formatisi in seguito allo sversamento del greggio e al calore dell’incendio. E se avesse avuto un’origine esterna? Il nodo resta comunque irrisolto anche se la presenza di Semtex è un dato oggettivo. E’ noto che il Semtex, come tutti gli esplosivi plastici, hanno bisogno i un innesco elettrico. Al contatto con il fuoco non esplodono, ma bruciano.

6) Timone del Moby Prince 30° a dritta. C’è un fatto accertato e sottoscritto da tutti i consulenti tecnici sentiti nel corso di tutto l’iter giudiziario: al momento dell’impatto con la petroliera, il traghewtto aveva la posizione del timone in “manuale idraulico” tutta a dritta Barra di pochi gradi a sinistra con by pass chiuso). La deduzione logica è che, poco prima dell’impatto con l’Agip Abruzzo, il Moby abbia effettuato una brusca virata a dritta.

7) Il nastro Canu. Girato da uno dei passeggeri, Angelo Canu, salito a bordo con la famiglia. Le immagini della sua telecamera – arrivate intonse per miracolo nelle mani degli investigatori – mostrano i Canu nell’attesa della partenza nella sala Deluxe, dove mangiano un gelato, e poi la “scoperta” della cuccetta nella quale attenderanno il porto di Olbia. Ilenia (un anno) e Sara (cinque) sorridono. Sono scene di una tenera intimità familiare. Il video si interrompe bruscamente mentre si sente un boato mai identificato. Ma secondo l’inchiesta bis il nastro non è mai stato tagliato intenzionalmente. In realtà fu necessario tagliarlo perché il reperto era rovinato per via del calore. Furono gli investigatori, insomma, a essere costretti a tagliare il nastro. In ogni caso mancherebbe solo un piccolo fotogramma dopo che il nastro è stato ricongiunto artigianalmente. Non solo, dicono i pm: non è detto che il “pezzo mancante” contenesse immagini significative sulle cause alternative della tragedia. Ma neanche questo, hanno precisato i magistrati, fu un sabotaggio delle indagini.

8) Il video D’Alesio. L’altro video che pare tagliato e rimontato è quello di Nello D’Alesio, un operatore portuale (tra i più importanti a Livorno, commercia petroli e carburanti). Il suo filmato è stato realizzato da terra. Secondo lo studio Bardazza (che sta conducendo una controinchiesta su mandato dei figli del comandante Ugo Chessa) potrebbe indicare che il traghetto abbia infilato la sua prua nella cisterna 7 dell’Agip Abruzzo, mentre la petroliera aveva la prua diretta a sud e non a nord come invece ha sostenuto (confermato) la Procura tre anni fa.

In ogni caso, c’è un passaggio in quel video che dà l’impressione di saltare qualche minuto (durante colloquio comandante Cannavina-Capitaneria D’Alesio aveva infatti la radio accesa).

9) Condizioni sull’Agip Abruzzo precedenti la collisione. Alcuni testimoni hanno dichiarato di riconoscere un black out sulla petroliera cinque minuti prima dell’incidente e tale condizione è stata riferita alla nebbia dai magistrati finora intervenuti sulla vicenda. Ipotizzando una differente risposta sono molte le deduzioni portate a riguardo, senza tuttavia che alcuna di queste sia stata sostenuta da un efficace impianto probatorio. Indubbiamente resta comprovata la condizione assolutamente anomala della tank n°6 non inertizzata, lasciata con il butterworth aperto. La motivazione fornita dall’equipaggio dell’Agip Abruzzo a tal proposito – l’aver incautamente lasciato una manichetta dentro la tank n°6 servita poche ore prima per portarvi le acque di sentina della sala macchine – desta ancora un certo stupore: in alcuna petroliera si lascia una tank non inertizzata, considerato l’alto rischio di incidenti ad elevata pericolosità, e soprattutto qualsiasi operazione di carico o scarico realizzata sulle cisterne è conclusa in ogni sua fase. L’idea di un processo incompiuto è pertanto quantomeno poco plausibile. Pur tuttavia non é stato finora possibile verificare il contrario di quanto finora descritto dal personale dell’Agip Abruzzo: nella petroliera tutto procedeva come sempre, prima della collisione.

10) Buchi nelle registrazioni. L’ufficiale di Marina Paolo Thermes (è insieme al collega Roger Olivieri) dice di aver sentito una conversazione tra il comandante Superina e i Vigili del fuoco sul canale 16, nella quale Superina dice di avere un principio di un incendio in sala pompe, ma he pensa di riuscire a risolvere la situazione. La conversazione non risulta nei nastri registrati. L’ufficiale riascoltando in nastri individua i “buchi”.

11) Peschereccio in fiamme. Marco Pompilio, direttore di macchina dell’Agip Abruzzo, racconta che che, una ventina di minuti dopo l’esplosione, vede un peschereccio d’altura in fiamme, in rotta di collisione con la petroliera e la sfiora. C’è un’altra imbarcazione oltre l’Agip e la Moby in quel tratto di mare? Anche il marconista Imperio Recanatini parla di “barca in fiamme”.

12) Le risposte degli americani.  Sul numero di navi militarizzate americane in rada gli Usa hanno avuto una linea non proprio chiara. Dalle carte processuali è affiorato un documento ufficiale – forse sottovalutato o addirittura non esaminato attentamente dai giudici – targato Department of the Army, Military Trafic Management Command, Terminal Battalion Italy, firmato dall’allora comandante del Leghorn Terminal, il tenente colonnello Jan Harpole. L’atto è una comunicazione dell’arrivo al porto di Livorno nel marzo dell’anno 1991, di alcune navi provenienti dal Golfo Persico, teatro della guerra contro l’Iraq. Annota l’ufficiale a stelle e strisce: «Si notifica che le sottoelencate navi trasportano materiale di proprietà del governo degli Stati Uniti d’America destinato alla base Usa/Nato di Camp Darby, Tombolo Pisa… Le navi sono sotto il diretto controllo del Dipartimento della Difesa Usa (Militarizzate), pertanto esenti da qualsiasi tassa o visita di controllo a bordo».

Questo rapporto fa riferimento soltanto a tre navi cariche di armamenti, ovvero Cap Breton (bandiera USA), Edfim Junior (bandiera ellenica) e Galant II (bandiera di Panama).

Nel 2002, secondo l’avvocatura militare nordamericana (a firma del capitano di vascello John T. Oliver) erano 5 i mercantili militarizzati. Precisa in un documento scritto, infatti Oliver, senza però fornirne i nomi identificativi: «Erano cinque (e non tre) navi merci noleggiate dal Comando trasporti militari Usa».

Il 10 aprile 1991 nella rada livornese sono presenti alcune navi militari italiane, ed almeno una mezza dozzina mercantili militarizzati USA carichi di armi, di ritorno dalla prima guerra del Golf: Gallant II, Edfim Junior, Cape Breton,  Cape Syros, Cape Farewell, Cape Flattery.


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