Hillary Clinton ormai l’ha capito perfettamente: se vuole conservare qualche possibilità di battere Trump a novembre deve, di fatto, accantonare se stessa.
Il risultato di New York l’ha confermato: l’ex first lady ed ex segretario di Stato vince ma non convince: vince perché tutto l’apparato democratico si è schierato al suo fianco, dal governatore Cuomo al sindaco Bill de Blasio; non convince, in quanto Sanders, da solo, ha superato comunque il 40 per cento dei consensi, riuscendo a imporre la sua agenda e i suoi temi e a far pesare, assai più che in passato, il voto dei “Millennials”, i quali puntano su di lui per far uscire definitivamente l’America dalla spirale liberista nella quale proprio il marito di Hillary, al pari di Reagan, ha contribuito a farlo sprofondare.
Hillary ha capito di essere un bersaglio fin troppo facile per i suoi sfidanti repubblicani, consapevoli del vento anti-establishment che si è sollevato nel Paese dopo lo scoppio della crisi e del fatto che Lady Terza via, interlocutrice privilegiata del “Partito di Wall Street” e conferenziera strapagata di Goldman Sachs, è l’avversario ideale su cui attirare le ire del ceto medio impoverito, della classe operaia bianca i cui salari sono rimasti al palo nonostante una ripresa economica considerevole, dei giovani che chiedono un’inversione di rotta, di quanti temono l’instaurarsi di una sorta di dinastia (timore costato caro al terzo rampollo di casa Bush che ha tentato la corsa alla presidenza) e di tutti coloro, e sono tanti, che accusano la Clinton di essere una figura fredda, epidermica, priva di sentimenti, una conservatrice travestita da progressista, una guerrafondaia, un déjà vu che riporterebbe gli Stati Uniti a prima dell’esperienza obamiana.
Hillary ha capito che se il suo messaggio fatica ad affermarsi a New York, dove in poche settimane Sanders ha dimezzato lo svantaggio iniziale, nel resto del Paese non basterà ripetere il mantra che dipinge Trump come un pericoloso estremista: non perché l’eccentrico miliardario non lo sia ma perché è proprio per questo che ha sbaragliato tutti i concorrenti del suo campo e ora insidia seriamente la Clinton, in una campagna nazionale che si preannuncia senza esclusione di colpi.
E ancor peggio sarebbe per Hillary se, al posto di Trump, dovesse esserci un soggetto alla Romney, ossia un esponente di quella destra moderata e nixoniana che potrebbe mettere veramente in ginocchio una donna tutt’altro che simpatica e per nulla apprezzata dall’ala liberal del suo partito.
In fondo, siamo di fronte all’eterno dilemma che accompagna la sinistra ad ogni latitudine: è meglio perdere o perdersi? Ed è possibile non perdersi senza, per forza di cose, essere condannati a perdere? L’affermazione di Obama otto anni fa, l’avanzata di Sanders a questo giro e la retromarcia di Clooney per una cena di finanziamento pro-Clinton dal costo oggettivamente smodato ci dicono chiaramente che sì, è possibile ed è anzi ciò che chiedono le nuove generazioni, le quali non sanno nemmeno cosa sia l’antica illusione dell'”American Dream”.
Hillary, come dicevamo, stavolta sembra averlo capito: continua a tendere la mano all’avversario di questa appassionante campagna per le primarie, sostiene che siano più le cose che li uniscono che quelle che li dividono (il che non è vero ma si tratta di un’accettabile menzogna a fin di bene) e ha preso a frequentare metropolitane e luoghi abituali per i comuni mortali, nella speranza di riuscire a strapparsi di dosso la fastidiosa patina di donna dell’alta società che un tempo avrebbe fatto la sua fortuna mentre oggi potrebbe costituire la sua condanna.
Bernie Clinton, ossia una Clinton spostata a sinistra, capace di fare ammenda dei propri errori e di avviare una nuova stagione nel campo democratico potrebbe, al contrario, prevalere senza eccessivi patemi d’animo su un Partito Repubblicano che si presenta comunque dilaniato al proprio interno, spaventosamente retrogrado a causa dell’ascesa dei Tea Party e incapace di produrre un’egemonia culturale all’altezza della rivoluzione obamiana e del socialismo senza remore del senatore del Vermont.
In poche parole, almeno in America, la destra sembra avere gli stessi problemi che aveva la sinistra fino a dieci anni fa, quando l’ossessione per Bush e per il bushismo indusse il politologo Lakoff a consigliare ai democratici di smetterla di “pensare all’elefante”, inteso come GOP, e di presentare finalmente una propria visione, radicalmente alternativa, del paese e del suo futuro.
L’auspicio è che questa lezione giunga presto anche da noi e che la sinistra europea riscopra il gusto di leggere qualche libro.