“Mi prendeva per i capelli e mi sbatteva la testa al muro, e poi mi bruciava la carne con le sigarette per farmi rinsavire”. Con queste parole inizia il lungo racconto di Elisa Consoli (nella foto) che nel 2014 ha vissuto l’incubo della violenza da parte del suo insospettabile fidanzato (F.M.) il quale, condannato in primo grado a 8 anni di reclusione per maltrattamenti e lesioni, ha avuto ieri in appello uno sconto che ha ridotto la sua pena a 6 anni e tre mesi. “La difesa ha puntato sul fatto che la condanna fosse elevata rispetto ai reati – spiega l’avvocato di Elisa, Massimiliano Santaiti – dato che i due avevano un rapporto intimo, ignorando completamente quello che è il fulcro della violenza domestica, ovvero che si consuma proprio nei rapporti intrafamiliari e che per questo può essere di una violenza devastante, protratta nel tempo e con danni enormi per la vittima, come nel caso di Elisa”.
Un segnale non positivo, questa sentenza, in un’Italia che dice di voler contrastare la violenza contro le donne senza riuscire ancora a mettervi freno e che dopo aver messo la Convenzione di Istanbul in un cassetto, ha sollevato pochi giorni fa dal suo incarico all’Istat Linda Laura Sabbadini che la violenza maschile l’ha saputa contare dando visibilità a queste donne, che nessuno calcolava, e dando numeri precisi sulla pervasività della violenza domestica e dell’enorme sommerso di chi non denuncia.
“In appello si è fatto riferimento, a mo’ di scusante, alla sindrome di Sindrome di Stoccolma – continua Santaiti – sostenendo che Elisa fosse consenziente alla violenza subita: un’enormità se si pensa alle torture e alle sevizie che questa ragazza ha subito nel periodo in cui è stata segregata”. La prima sentenza del 30 aprile 2015 aveva infatti condannato F. M. a 8 anni di reclusione per maltrattamento e lesioni (art 133 cp) “visti la personalità dell’imputato ed una reiterazione delle condotte aggressive e visti i gravi precedenti per atti di violenza e predatori, visto lo stato di prostrazione cagionato ad Elisa e vista l’intensità del dolo”: una sentenza rimessa in discussione in un appello che riducendo la condanna farà discutere su quale sia la reale considerazione di questi reati in Italia da parte delle istituzioni, compresi i danni sostanziali che provocano, e sul fatto che anche un autore di violenze gravi può in fondo cavarsela con sconti di pena progressivi, come succede spesso, annullando così il deterrente che è una delle chiavi del contrasto al femminicidio.
Nel suo percorso di uscita dalla violenza, Elisa ha subito diverse operazioni: ha ricostruito il naso che era rotto e completamente storto, e ha tolto la tiroide. Ma le conseguenze devastanti non sono state solo fisiche perché oggi Elisa non lavora più e vive segregata in casa con i genitori e la sorella, nella paura di essere perseguitata da amici e conoscenti del suo ex che vivono a pochi isolati dal suo, e nel terrore di non riuscire a rifarsi una vita e di non essere adeguatamente protetta nel momento in cui lui avrà scontato la sua pena. “L’ultima frase che mi ha detto – confessa Elisa – è stata: tu mi vuoi lasciare ma io ti amo quindi se mi lasci ti vengo a cercare, ti riprendo, ti porto in pineta e poi prima ti do fuoco a te e poi mi do fuoco io”. Una promessa che ancora oggi fa rabbrividire.
I fatti risalgono al 2014 quando Elisa, che era appena uscita dall’ospedale dove era arrivata per uno svenimento in metro, fu prelevata in macchina e portata a casa del fidanzato. “I miei si erano allontanati un momento, e quando mi ha preso per un braccio e mi ha fatto salire in macchina dicendo ora tu vieni con me, pensavo scherzasse, non pensavo facesse sul serio”, racconta la ragazza. Fatti su cui F. M. si è sempre dichiarato “dispiaciuto ma non pentito”, sostenendo che la donna fosse consenziente e di averle dato al massimo “due o tre schiaffi”, “un calcio”, e di averla “presa per i capelli”.
Ma la storia di Elisa è un’altra.
Lei è una ragazza normale, bella, solare. Fa la parrucchiera ed è campionessa di ballo latino americano. Una vita che oggi ricorda come se non fosse stata la sua, come se quelle foto con il viso sorridente e i capelli lunghi non fosse stata mai lei. “Lui con me ha seguito tre fasi – dice Elisa – prima la violenza sentimentale, poi quella psicologica e infine quella fisica, con cui mi ha quasi uccisa”. Quando arrivò al pronto soccorso, dopo aver vissuto con lui per mesi, Elisa era irriconoscibile: pesava 35 chili in meno, era ricoperta di lividi e aveva una parte consistente della testa senza capelli. Nei certificati medici si legge: “Alopecia da strappo traumatico, tumefazioni, contusioni, escoriazioni, ustioni varie, frattura delle ossa nasali” ma anche “contusioni multiple del capo, del torace, del ginocchio”, e ancora “contrattura muscolare”, “dolore condro-sternali e blocco articolare di entrambe le spalle”.
L’uomo che l’ha ridotta così, l’aveva conosciuto nel marzo del 2014, uscendo con un’amica con cui nemmeno voleva andare: “Siamo uscite e lei mi disse che saremmo andate prima da un suo amico, così l’ho assecondata anche se non avevo voglia, e quando sono entrata lui sedeva lì, sul divano: un ragazzo gentile, carino, premuroso, un uomo di cui qualsiasi ragazza si può innamorare, uno che non penseresti mai capace di tutto quello che poi ha fatto”.
Elisa, come inizia questa storia?
“Io ero tranquilla, facevo la parrucchiera, ero normale. Lui era gentile. Ci siamo conosciuti, poi mi ha cercata, ci siamo sentiti, siamo usciti insieme e poi ci siamo fidanzati. All’inizio era perfetto: ero coccolata, viziata, lui era premuroso, e dopo due mesi ha comprato le fedine d’oro. E io mi domandavo: ma sarà vero?”
E poi?
“Poi le prime domande strane sul mio passato: che tipo di rapporti avevo avuto, con chi ero stata. Io gli dicevo: perché ti interessa? a me non interessa con chi sei stato, sto con te, basta. Una sera però mi viene a prendere a lavoro, è strano, innervosito e mi dice: ho incontrato il cugino del tuo ex e mi ha detto che sei stata con quello 4 anni e otto mesi e non cinque come avevi detto tu, sei una bugiarda. Ed è stato quello il momento in cui ho cominciato a percepire che qualcosa stava andando dalla parte sbagliata”.
Dove?
“Stava diventando aggressivo, mi offendeva dicendomi che ero una puttana, una zoccola e voleva sapere con quanti uomini ero stata e le dimensioni del loro pene: prendeva una bottiglietta, una zucchina. Un incubo. Anche perché io non parlavo mai di sesso, non mi piaceva, io ero molto chiusa, e lui mi forzava”.
Quando è cominciata la violenza fisica?
“La prima volta che mi mise le mani addosso eravamo sotto casa mia, mi ha dato un pugno sotto, poi mi ha messo le mani al collo. Il giorno dopo mi ha chiesto scusa, piangeva, ma poi mi controllava sempre di più e io ho cominciato a perdere peso, circa 15 chili in due mesi e non mi rendevo conto che era iniziata anche la violenza psicologica. Poi quando mi ha portata a casa sua ho capito che ero nei guai”.
Quali guai?
“Mi ha portata via in macchina dall’ospedale dopo essere stata dimessa per uno svenimento in metro, ma pensavo che fosse uno scherzo. E invece da lì è cominciato tutto. Per me era meglio una pisoltellata, perché è stata un’agonia interminabile”.
Può spiegare meglio?
“Mi ha portata a casa sua e ha chiuso la porta dietro di noi isolandomi dall’esterno. I miei mi chiamavano e lui mi diceva: rispondi e dì ai tuoi che da stasera dormi a casa mia, digli che c’hai 26 anni che fai come ti pare, che stai con me, e da ora in poi vivi a casa mia. Io gli dicevo che dovevo andare a casa, avevo addosso solo un paio di pantaloncini e la maglietta, mica potevo stare così. E insistevo dicendo che sarei andata a casa anche se lui non voleva, ed è a quel punto che ho notato che l’espressione del suo viso era cambiata, era diverso, strano, e allora ho avuto timore e invece di discutere ho pensato di assecondarlo momentaneamente. Pensavo: aspetto che si sbollenta e poi vado a casa. E invece no”.
Perché?
“Perché mentre sto al telefono con mia madre lui mi costringe a mettere il viva voce e tenendomi in una morsa la coscia, mi sussurra: o dici a tua madre che stai qua per tua volontà o io ti stacco la testa. Ed è stato lì che ho capito che si metteva male e mi sono fermata, ho cercato di fare mente locale, e mi chiedevo: ma davvero che sta succedendo a me? Un uomo di 80 chili, alto due metri, con l’espressione da squalo che mi teneva in scacco a casa sua.
E dopo?
“Da lì in poi è cominciata una convivenza di cazzotti, botte, calci e pugni su costole, reni e stomaco. E quando gli gridavo che era un pazzo, malato e che me ne volevo andare, lui mi dava pugni ovunque e una volta mi ha fatto cadere il dente davanti. È così che si crea un punto di non ritorno in cui lui non ha più remore perché ti sente in suo potere”.
Lei reagiva? Ha cercato di difendersi?
Ho cercato in tutti i modi di tenergli testa e di difendermi ma lui allora prendeva l’accendino, lo accendeva per pochi secondi, e poi mi metteva l’accendino rovente sulla carne dicendomi: vediamo quanto resisti. Vediamo chi la spunta. C’è solo una possibilità che io smetta, è cioè che tu fai quello che dico io.
Ha mai cercato di scappare?
“Sì, ho cercato di scappare mentre lui dormiva: ero arrivata quasi alla porta, quando da dietro ho sentito una mano che mi ha preso per capelli e mi ha trascinata di schiena sulla scala di cui ricordo ogni scalino. E dopo pugni, morsi, capelli strappati, ginocchiate, schiaffi, calci in testa ed è lì che mi ha rotto il naso con una manata da sotto. Ne ho prese talmente tante che non so come io sia rimasta viva. Ed è ovvio che poi non ci ho più riprovato.
Quanto è stata punita per questo suo tentativo di sottrarsi?
“Molto perché da quel momento in poi ha cominciato a prediligere gli spigoli del bagno su cui poteva farmi sbattere per bene. Un giorno mi ha dato un cazzotto in testa e mi ha scacciato due vertebre. Mi ricordo che mi si è appannata la vista e ho perso i sensi mentre lui mi gridava: guarda che mi hai fatto fare! Quando mi sono svegliata ero zuppa d’acqua perché cercava di rianimarmi tirandomi l’acqua addosso: avevo la testa come un pallone e mi facevano male tutti i denti”.
Cosa le contestava esattamente?
“Era geloso, possessivo e si inventava le cose per potermi massacrare. Malgrado fossi reclusa in casa sua, un giorno s’inventa che io facevo la cascamorta con un suo amico, che tra l’altro è gay. Quella sera mi disse: io ti ammazzo, ti faccio capire dove hai sbagliato, tu mi hai fatto male e io ora ti faccio provare quello che soffro io. Mi stava dietro le spalle e sapevo che se mi muovevo lui mi avrebbe massacrata. All’improvviso mi atterra con un calcio da dietro e mi ricordo solo che il dolore fisico mi levava l’aria: mi dava cazzotti ovunque caricandoli, come fanno i pugili, e mentre mi massacrava mi diceva che mi amava”.
Ha mai pensato di poter morire?
“Certo e per questo cercavo di non andare mai completamente ko perché avevo paura che se mi accasciavo mi avrebbe finita, ma non ce la facevo più: ero gonfia, mi colava il sangue dal naso e le botte erano talmente tante che non sentivo più il dolore ma solo la pelle tirare. Un giorno ho cercato di reagire mettendogli una mano sulla giugulare per disperazione ma io sono troppo piccola in confronto a lui e quando lui mi ha stretto tutta la gola con una sola mano, io ho lasciato la presa, e mentre mi strozzava mi ha detto: ora ti saluto, e mi ha infilato la lingua in bocca finché non ho morso la lingua. A quel punto mi ha lasciata ma mi ha dato un rovescio che mi ha fatto girare la testa come l’esorcista”.
Ma alla fine è riuscita a scappare.
“Sì, perché a un certo punto il fratello più piccolo, che abitava con lo zio di fronte casa sua, ha cercato di aiutarmi mentre lui era con il padre a pescare e ha chiamato i miei genitori. Così sono riuscita a evadere sotto gli occhi della madre che mi controllava. Ero in uno stato pietoso: scalza, pesavo 36 kili, ero piena di lividi, massacrata, non sembravo io, non mi riconoscevano”.
E cosa ha fatto?
“Appena uscita da lì mia madre e mia sorella mi hanno portato in ospedale dove una dottoressa invece di accogliermi a dovere, mi chiede subito se uso stupefacenti. La mia fortuna è stata un’infermiera bravissima che ha capito tutto e con la scusa di vedere i tatuaggi mi ha fatta spogliare piano piano e ha visto in che stato ero”.
La violenza è stata refertata?
“Sì, gli infermieri sono stati bravissimi anche se il medico nel certificato si dimenticò di mettere la prognosi di 21 giorni con cui scatta l’arresto immediato, e ne indicò solo 20 senza notare la gravità della situazione e minimizzando il mio stato fisico malgrado il massacro fosse evidente”.
E poi ha denunciato?
“Certo, subito. In queste condizioni vado anche al commissariato dove racconto i fatti a un poliziotto che masticando la gomma mi guarda e mi fa: e poi chi è uscito il dandy, il freddo, il libanese. A regazzì, hai visto troppo romanzo criminale.
Ed è tornata a casa senza seguire un piano di protezione e di assistenza?
Mia madre lo ha chiesto, ma le risposte sono state evasive. Allo sportello del Grassi (ospedale di Ostia, ndr) mi hanno dato un appuntamento con la psicologa dopo due mesi e al commissariato mi hanno liquidata. Così ci siamo rinchiuse in casa ma io stavo malissimo e avevo paura.
Lui l’ha cercata?
“Subito dopo è venuto sotto casa mia dove noi vivevamo con la porta sbarrata e le persiane sempre chiuse. Diceva di essersi pentito, che mi amava, che dovevo tornare con lui. Insisteva, stava sempre sotto casa. Ed è stato grazie alla totale assenza di protezione, alla mancanza di misure cautelari e di assistenza nei miei confronti che lui ha avuto la possibilità di rientrare in gioco. Persone così non mollano e se si sentono impunite vanno fino in fondo. E tu che sei stata in balìa di uno così o hai qualcuno di esperto che ti dice cosa fare oppure rimani in balìa perché hai paura, sei terrorizzata, non sai quali sono i tuoi diritti e non sai come uscire dalla situazione”.
E cosa ha fatto?
“Ho resistito ma poi lui ha cominciato a minacciare la mia famiglia, soprattutto mia sorella: mi diceva come era vestita, i suoi orari, dove andava, cosa faceva, sapeva tutto, probabilmente la pedinava. E ho cominciato a temere per la sua incolumità”.
Aveva paura?
“Sì ma dovevo anche risolvere e non sapevo cosa fare perché non volevo toccasse mia sorella, e dato che non mi fidavo più delle istituzioni, pensavo a come proteggerla io, e lui, approfittando della mia debolezza, ha affondato il coltello nella mia psiche. Ed è per questo che, per proteggere la mia famiglia, a un certo punto ho pensato di sacrificarmi tornando con lui pur di non mettere in pericolo loro”.
Era cosciente a cosa andava incontro?
“Non avevo scelta, perché se fosse successo qualcosa a mia sorella o a mia madre non me lo sarei mai perdonato. Meglio io che loro”.
E quando è tornata a casa del suo ex?
“I primi giorni non mi ha sfiorato neanche con un dito ma parlava continuamente di matrimonio e vedendo la mia ritrosia s’indispettiva e a un certo punto ha perso la pazienza e ha ricominciato con le botte, ed è stato sotto minaccia che mi portata a fare le pubblicazioni”.
E poi?
“Mi ha costretta a sposarlo dopo 15 giorni. Mi ha fatto truccare per nascondere i segni e ha organizzato un matrimonio senza nessuno dei miei parenti. Mentre stavo lì, ho cercato di comunicare con il pubblico ufficiale fissandola negli occhi nella speranza che si accorgesse del labbro gonfio e dell’occhio nero sotto il trucco, ma non c’è stato niente da fare. Si è messa la fascia e ci ha sposati senza che io potessi fiatare”.
Il matrimonio ha cambiato qualcosa?
“Da sposata è rimasto buono per un po’ ma dopo quattro giorni mi ha ripreso la fede per impegnarsela”.
E le percosse?
“Ricomincia prima con le dimensioni del pene del mio ex ragazzo, voleva che gliele disegnassi, prendeva il matterello, le zucchine e poi me li tirava addosso. Botte a iosa, ormai ero sua moglie quindi ero roba sua. È stato a quel punto che mio padre è andato a parlare con il suo e lo ha convinto ad aiutarmi, nella disperazione assoluta, da uomo a uomo, da padre a padre”.
E cosa è successo?
“Io non ce la facevo più, pesavo 29 chili, e quando il padre di lui è venuto a casa dicendo che l’indomani sarei andata a fare colazione con lui e poi sarei andata a trovare i miei genitori, ho capito che mio padre era andato a parlarci”.
Il suo ex come ha reagito?
“Lui naturalmente si è opposto e i due hanno cominciato a litigare, e per far vedere di chi ero, mi ha preso per i capelli e mi ha messo due dita negli occhi. È stato suo padre a fermarlo e mentre lo teneva mi diceva: scappa, quella è la porta, vai via ora!”
E lei?
“Io ero impietrita, non mi si muovevano le gambe, ero priva di forza, ormai avevo interiorizzato il terrore. Fortunatamente il padre di lui lo ha capito e ha portato via il figlio, lo ha caricato in macchina e se ne è andato. A quel punto sapevo che quella era l’occasione giusta e anche se non mi reggevo in piedi ho raccolto tutte le mie forze, ho chiamato mio padre, ho sceso le scale così com’ero, e sono scappata, sotto gli occhi di sua madre che lo ha subito avvertito”.
È riuscita a tornare a casa, quindi?
“Sì ma disfatta, stremata ed è li, dopo mesi, che ho cominciato a sentire i dolori che ormai non sentivo più per assuefazione”.
Cosa ha fatto?
“Con le ultime forze che mi erano rimaste e con i 29 chili che avevo addosso, sono andata a fare una nuova denuncia dove, fortunatamente ho incontrato Isabella Solicelli, l’ispettrice di polizia, che ha fatto un verbale eccezionale per cui lui è stato arrestato senza indagini preliminari e messo agli arresti domiciliari. La mia salvezza”.
Adesso, cosa farà?
“Sono giovane, vorrei rifarmi una vita ma lontano da qui, in un altro posto. I miei però non hanno molte possibilità e non riescono a prendere una casa altrove, che sarebbe l’unica soluzione per ricominciare a vivere, con un nuovo lavoro, una nuova vita, nuove amicizie. Io e mia sorella viviamo nella paura continua di ritorsioni e siamo segregate in casa, non usciamo quasi mai. Qui mi sento braccata, osservata, è come se la violenza continuasse nei vicoli di questo quartiere, negli occhi dei suoi amici che ritengono la sua condanna paradossalmente ingiusta”.
Se potesse chiedere, cosa vorrebbe?
“Vorrei più protezione dallo Stato e vorrei che le istituzioni aiutassero me e chi come me si ritrova in una situazione di violenza e vuole uscirne definitivamente. Perché la mia situazione, come quella di altre, non finisce con la condanna di chi ti ha massacrata e non è una cosa facile in quanto dopo la denuncia comincia un nuovo martirio. Noi abbiamo avuto il coraggio di scappare e denunciare, ora tocca a loro rendere giustizia dandoci la possibilità di ricominciare a vivere, di reinserirci in una vita dignitosa, protetta, senza il terrore di ritorsioni e soprattutto senza aver paura del momento in cui il tuo torturatore sarà di nuovo in libertà. Altrimenti sono tutte chiacchiere”.