Triste questo Paese che diserta le urne, questo Paese divenuto indolente, ignavo, incapace di rendersi conto dell’importanza di difendere quotidianamente la cosa pubblica. Triste, ma non bisogna prendersela più di tanto con i cittadini: è chiaro che quando sei immerso in un contesto di disimpegno generalizzato, di scomparsa di ogni passione civile e di senso collettivo di sconfitta e di mancanza di alternative, è normale in un contesto del genere cedere al disincanto e alla rassegnazione.
Ciò che non si può accettare, al di là della bruciante sconfitta patita ieri dal fronte del SÌ, sono le parole del presidente del Consiglio: un discorso che ci ha riportato alla mente la critica che gli mosse tempo fa Cuperlo, accusandolo di non possedere le qualità del leader ma di utilizzare a piene mani l’arroganza del capo.
Ciò che non si può accettare è la legittimazione dell’astensione da parte di figure istituzionali che, per storia, tradizione politica e prestigio, dovrebbero avere la democrazia, la Costituzione e la sovranità popolare come bussole e che, invece, si lasciano spesso andare a dichiarazioni da “picconatori” francamente incomprensibili e assai poco giustificabili.
Ciò che non si può accettare è il silenzio e la disinformazione messa in atto dai media, capaci addirittura di spargere la voce, falsa e fuori dal mondo, che domenica 17 si sarebbe votato solo nelle nove regioni interessate dalle trivellazioni marine.
Ciò che non si può accettare è la derisione degli avversari e dei quasi sedici milioni di cittadini che sono andati a votare ad opera di rappresentanti delle istituzioni che dovrebbero avere a cuore il valore inestimabile della partecipazione popolare alla vita politica mentre, al contrario, dimostrano una pericolosa mancanza di senso dello Stato e delle stesse istituzioni che hanno l’onore di servire.
Ciò che non si può più accettare è quest’utilizzo strumentale del quorum che venne introdotto dai padri costituenti per scongiurare ogni forma di abuso da parte delle minoranze e tutelare pienamente l’operato dei rappresentanti del popolo ma che non ha più ragione di esistere in una fase storica nella quale si reca alle urne poco più del 50 per cento degli aventi diritto e i parlamentari sono dei nominati che rispondono unicamente ai propri capibastone. A tal proposito, bisogna lodare la proposta dei 5 Stelle di abolire l’Istituto del quorum, al fine di costringere chi è contrario ad un quesito referendario a battersi per il NO, senza potersi più rifugiare in una fuga pilatesca, approfittando senza ritegno di un tasso di astensione ormai mostruoso da anni. Per conservare il quorum e difenderne la validità ci vorrebbe una classe dirigente come quella della vecchia DC, la quale, Fanfani in testa, nel ’74 si batté con orgoglio per l’abrogazione del divorzio, perse e ne prese democraticamente atto: oggi, per nostra sventura, di figure di quel livello non ce ne sono più.
Ciò che non è accettabile, inoltre, sono i toni, i modi e i comportamenti dello stato maggiore del PD, il quale non perde mai occasione per umiliare la propria minoranza interna, dimostrando una drammatica fragilità che le impedisce di governare: al massimo comandano, e non è la stessa cosa.
E non è accettabile, infine, questa boria, questa supponenza, quest’aggressività twittarola, quest’incapacità di vincere con stile, di prevalere con classe, di tendere la mano a chi ha perso una consultazione ma ha comunque sollevato un problema serio che riguarda il futuro del Paese nei prossimi decenni.
Triste Paese il nostro: privo di una classe dirigente all’altezza, inutilmente rissoso, incapace di entrare nel merito delle singole questioni, animato da uno spirito da Curva Sud che ha progressivamente distrutto e annientato la passione politica di milioni di persone e oggi costretto a dibattere intorno alle sparate di un premier che ricorda il Marlon Brando di “Fronte del porto” e alla furia cieca e priva di ogni prospettiva di chi, legittimamente, non lo sopporta più.
Tristissimo un Paese così, nel quale abbiamo smarrito il gusto, la bellezza e persino la necessità di stare insieme, trasformandoci in un ammasso di monadi solitarie che corrono da una parte all’altra senza meta: naufraghi in un mare invaso di petrolio, a bordo di una zattera destinata a non reggere alle numerose tempeste che si agitano intorno a noi.