L’ultimo rapporto di “Reporters sans frontieres” butta giù l’Italia al 77° posto nella classifica mondiale sulla libertà d’informazione. Perdiamo 4 posti dall’ultima rilevazione del 2015.
Le parole usate da RSF, una delle più importanti Ong mondiali sulla libertà di stampa sono dure: “Nel mese di maggio 2015 – scrive RSF – il quotidiano La Repubblica ha riferito che tra i 30 e i 50 giornalisti erano sotto la protezione della polizia perché erano stati minacciati. Il livello di violenza contro i giornalisti (comprese le minacce di morte e intimidazioni verbali e fisiche) è allarmante. I giornalisti che indagano la corruzione e la criminalità organizzata sono quelli maggiormente sotto attacco. Nella Città del Vaticano, è il sistema giudiziario ad essere intimidatorio verso i media , considerando gli scandali Vatileaks e Vatileaks 2. Due giornalisti dovranno affrontare fino a otto anni di carcere per aver scritto libri sulla corruzione e sugli intrighi all’interno della Santa Sede”.
E’ vero che RSF cita fatti noti alle cronache internazionali, ma è altrettanto vero che per aver redatto il suo rapporto ha utilizzato i dati messi a disposizione da Ossigeno per l’informazione, cioè gli unici dati disponibili.
Altrettanto dure dunque le parole di Alberto Spampinato – direttore di Ossigeno – che, nel rimarcare la grave situazione italiana sulla libertà di stampa, ricorda che il rapporto di RSF paragona dati imparagonabili, semplicemente perché non in tutte le nazioni è presente un “ossigeno per l’informazione” pronto a rilevare, vagliare e verificare il grado di intimidazioni e minacce subite dai giornalisti, per ricavarne delle statistiche attendibili, e utilizzabili per disegnare trend e scenari.
E’ vero dunque che in Italia aumentano le intimidazioni e le minacce nei confronti dei giornalisti, ma è altrettanto vero che il fenomeno appare in tutta la sua gravità perché c’è un Osservatorio deputato a rilevare il fenomeno. Eppure quello che viene registrato non è che la punta dell’iceberg.
E’ più folto il gruppo di chi decide di non denunciare del ristretto manipolo che invece sceglie di uscire allo scoperto. Eppure l’unico modo per opporsi allo “stutus” di vittime è non tacere. Sapendo, c’è da aggiungere, che uno dei prezzi da pagare spesso è l’isolamento da parte degli stessi colleghi.
E’ la “censura mascherata” infatti il grande indicatore difficile da rilevare: un termine coniato dal Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, Nils Muiznieks, fatto proprio da Ossigeno, che censendo le diverse sfaccettature della “censura mascherata” ha potuto rilevare i 2800 casi di giornalisti minacciati o intimiditi, censiti nel suo database.
Per dare una risposta al perché l’Italia sia scesa dal 73° al 77° posto dunque, basterebbe ricordare che i giornalisti che abbiano scritto una notizia non vera ancora oggi nel nostro Paese sono puniti con il carcere, e che il nostro “servizio pubblico” oggi è ancora ostaggio dei partiti. Ma è necessario andare oltre: è necessario continuare ad esigere che sia modificato il reato di diffamazione a mezzo stampa da doloso a colposo, con tutte le tutele, anche assicurative, che ne conseguirebbero. E’ necessario continuare ad esigere, come categoria, che venga punito il diffamatore temerario e in malafede; è necessario combattere il lavoro nero e sottopagato nelle redazioni, perché una giornalista e un giornalista è libero se tutelato contrattualmente; il giornalista precario è un giornalista ricattabile e facilmente vittima di quella “censura mascherata” così subdola dunque difficile da riconoscere. Ancora di più quando ad esserne vittima sono le giornaliste, target preferito dai molestatori e dagli intimidatori via social network.