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Rai, campionato del peggio tra dirigenti interni e supervertici paracadutati

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Antonio Campo Dall’Orto e la Rai, matrimonio tormentato. Il nuovo amministratore delegato di nomina renziana, o non fa o fa male, denuncia il sindacato UsigRai di fronte a troppe assunzioni di dirigenti esterni, antichi collaboratori del nuovo. Andrea Melodia, ex dirigente Rai ed esponente dell’Ucsi, stampa cattolica, prova a ragionarci sopra. I nuovi inserimenti utili e le forzature del già visto. Le innovazioni che non innovano e in cambiamenti necessari che non arrivano.

Autoreferanzialità corporativa?
Potrebbe sembrare una uscita stravagante e pretestuosa quella dell’USIGRAI, la costola sindacale dei giornalisti della Rai, di presentare esposti alla Corte dei Conti e alla Autorità Nazionale Anticorruzione sul tema delle assunzioni di dirigenti esterni da parte della Rai.
La prima reazione alla notizia è di trovarsi di fronte a un episodio di autoreferenzialità corporativa. Personalmente credo che non sarei mai stato capace di prendere una iniziativa simile, proprio perché sarei stato bloccato da questa evidente, automatica etichetta negativa.
Però scavando nelle motivazioni, e riflettendo sul quadro attuale del percorso della riforma Rai, emergono cause e implicazioni che portano a vedere gli esposti in una luce più complessa e diversa.

Anzitutto consideriamo le motivazioni giuridiche, che vengono riferite nel comunicato emesso dalla FNSI sulla base di una fonte AGI. Vale la pena di leggerle, almeno in parte, perché rivelano l’esistenza di significative tensioni nei vertici aziendali che si sono succeduti negli ultimi anni sui criteri di gestione dell’azienda pubblica.
L’obbligo di trovare all’interno dell’azienda risorse umane disponibili prima di cercarle all’esterno sono contenute – addirittura, diremmo in un Paese normale – nel Piano Triennale di Prevenzione della Corruzione, approvato dal CdA Rai non più di tre mesi fa. Il Piano prevede “l’obbligo che preventivamente all’avvio del processo di reclutamento di personale sul mercato” debba essere effettuata una “ricognizione preliminare della disponibilità di risorse interne adeguate in termini qualitativi e quantitativi a ricoprire la posizione ricercata”; “le ricognizioni interne, effettuate tramite lo strumento di job posting, sono pubblicate sul sito intranet aziendale unitamente alle caratteristiche dei profili ricercati”; i percorsi di selezione del personale devono essere “tracciati”. Ma non basta. La legge del dicembre scorso sulla riforma della Rai impone all’azienda di fissare il numero dei dirigenti non dipendenti che possono essere assunti con contratto a tempo determinato. Questo tetto è contenuto nello Statuto Rai – e anche in questo caso l’ultima versione risale ad appena tre mesi fa – ed è fissato al 5% per i dirigenti esterni, su un totale in pianta organica di 252. Di qui la richiesta di accertare se tetti, procedure, ricorso al job posting siano stati rispettati.

Troppi amici dell’amico
Secondo i calcoli Usigrai i dirigenti esterni assunti negli ultimi tempi sarebbero 21, comprendendo il direttore di RaiSport; il capo dell’Ufficio stampa della Rai; il direttore, un vicedirettore e il caporedattore della Direzione editoriale per l’Offerta informativa; il direttore della Comunicazione; il direttore e un vice direttore di Rai2; il direttore e un vice direttore di Rai3; il consulente editoriale per l’elaborazione di strategie e prodotti e per il supporto al posizionamento di brand e reti. Secondo un comunicato diffuso dall’Ufficio Stampa della Rai, i manager esterni assunti sono 17, i nuovi dirigenti hanno quasi tutti contratti triennali, e la Rai ha fatto ampio ricorso al job posting.

Fin qui le motivazioni giuridiche. Confesso che la mia valutazione personale, poco propensa in generale a una opinione positiva sul quadro giuridico che si è sedimentato negli anni intorno al servizio pubblico Rai, avrebbe potuto continuare ad essere scettica sulla opportunità della iniziativa dei giornalisti. Giuridicamente corretta, ma opportuna in termini di politica culturale?
Se ci spostiamo su quest’ultimo piano, le mie considerazioni cambiano registro.

Il nuovo che avanza è vecchia storia
Non è la prima volta che assistiamo nella storia della Rai a significative immissioni esterne. Ricordo quella del CdA “dei professori”, all’inizio degli anni ’90. Quando un gruppo manageriale neoarrivato sente il bisogno di introdurre significativi cambiamenti, la tentazione è subito quella di assumere un manipolo di dirigenti con forti esperienze “di mercato” ai quali affidare il risveglio di manager interni più o meno dormienti. È la strada presa da Campo Dall’Orto, neo amministratore delegato il quale non gode neppure del conforto di far parte di una squadra, perché è in grado di dettar legge ai componenti del suo CdA. Cosa succede, in questo caso? I nuovi dirigenti hanno un tempo lungo, che può andare da sei mesi ai due anni, per capire dove sono finiti e mettersi nelle condizioni di operare. Alcuni resistono, altri se ne vanno. Alcuni in situazioni particolari favoriscono l’innovazione della cultura e dei processi aziendali, altri si adeguano a quello che trovano. Nel complesso il loro influsso innovativo resta molto limitato, sia per la resistenza opposta dagli “interni” sia perché il loro inserimento, in molti casi, avviene non al posto dei ruoli chiave operativi preesistenti bensì attraverso l’invenzione di nuove strutture “di coordinamento” destinate a rendere sempre più elefantiaca e ingovernabile la struttura aziendale. Al vertice si ritiene di prendere il controllo riducendo il numero dei propri riporti gerarchici diretti, ma in realtà sono questi ultimi a non avere il controllo dei propri sottoposti, che mantengono tutti i loro ruoli operativi.

Questo meccanismo è particolarmente evidente nell’attività giornalistica. Carlo Verdelli, un ottimo professionista incaricato del coordinamento editoriale di tutta l’informazione Rai, con un manipolo di giornalisti suoi collaboratori, interni e esterni, deve poter dare ordini ad almeno otto direttori di Testata, forti di una autonomia dettata dalle leggi e dal Contratto nazionale giornalistico, alcuni dei quali impegnati per tradizione nella concorrenza interna. E dovrebbe anche dare ordini a tutti i direttori di rete che ospitano talk show informativi (alcuni dei quali, a loro volta, hanno difficoltà a dialogare con i conduttori/star). Gli auguro ogni successo, ma resto scettico sui risultati. Volendo andare a fondo, possiamo scoprire che alcune funzioni informative “di servizio” oggi essenziali per i cittadini, come la sanità, il traffico, il meteo, restano del tutto marginali rispetto a questa piramide organizzativa e dunque destinate a languire in una gestione spesso casuale.

Prima guardati in casa
Quale dunque l’alternativa? La rinuncia a ogni immissione esterna? Non direi. Ma ha ragione il sindacato nel pretendere che sia fatta una seria indagine sulle professionalità interne, spesso sconosciute e inespresse, prima di accedere al mercato. Le questioni da affrontare sono due, e non saprei dire quale sia la più importante. La prima: la struttura aziendale. La seconda: la selezione e formazione del personale.
Tutte le responsabilità editoriali in Rai, con la eccezione della fiction e del cinema, sono ancora organizzate per canali di diffusione e non per aree tematiche. Questa soluzione è stata ottimale a lungo, in un mondo analogico nel quale erano padroni le strutture industriali della comunicazione e i grandi flussi organizzati. Oggi ci troviamo in un mondo digitale e liquido nel quale prendono il sopravvento la rete stellare e i nodi di relazione personalizzati, che trasportano anche grandi masse di contenuti audiovisuali. La massa d’urto della produzione di contenuti resta in mano alle industrie come la Rai, ma i nuovi player come Facebook e Twitter governano gli algoritmi che presiedono alla loro circolazione; mentre la modalità di consumo legata ai flussi lineari (la massa degli spettatori di Raiuno e degli altri grandi canali radiotelevisivi) è ancora molto significativa in termini sociali, culturali e politici.

Rai Media company
È evidente la difficoltà di stabilire un modello organizzativo e produttivo per una situazione così complessa e in costante trasformazione. La Rai non può certo perdere di vista i canali generalisti, sia perché le “danno da vivere”, sia perché restano importantissimi dal punto di vista sociale. Ma se non trasforma profondamente se stessa non sarà mai una media company, un produttore di contenuti attivo a 360 gradi nel mondo della comunicazione, capace di mettere il mondo digitale e il web al centro della sua cultura e delle sue capacità produttive, e di restare così in stretto rapporto con il mondo dei giovani che sempre più accede ai suoi contenuti attraverso modalità del tutto diverse da quelle tradizionali, al punto di non accorgersi nemmeno della loro origine. Soprattutto, non sarà in grado di produrre algoritmi alternativi che aiutino a distribuire i contenuti secondo criteri di valore e di salvaguardia della convivenza civile.

Mi sembra che dunque sia inevitabile ripensare profondamente la struttura della Rai, portando al centro generi e contenuti, che devono nascere in misura crescente nel web e per il web, con responsabilità editoriali il più possibile unitarie, efficienti e propulsive; e d’altra parte senza trascurare, anzi ripensandola profondamente, la funzione di selezione, editing e aggregazione dei contenuti dei grandi canali generalistici lineari, a cominciare da Raiuno e RaiNews; governando sapientemente (e seguendo le innovazioni tecnologiche) la trasformazione dei canali tematici in banche dati on demand; e interpretando nel tempo, con capacità di adattamento, tutte le zone d’ombra e le incertezze che inevitabilmente si presenteranno nello spostarsi dall’uno all’altro modello produttivo. Pur con l’avvertenza che va bene essere prudenti, ma bisogna essere consapevoli che le trasformazioni principali sono già avvenute, la Rai è in ritardo nell’adeguarsi, e il mondo non procede al passo sonnolento dell’Italia.

Meno marketing più etica
Veniamo alla seconda e non meno importante questione, quella della selezione e formazione del personale. Ovvero della cultura aziendale, della cultura del servizio pubblico. Va maturando la sensazione che gli attuali vertici aziendali non abbiano piena consapevolezza di un problema che non si risolve con dichiarazioni di buon volontà e richiede atti concreti. La cultura Rai non ha bisogno solo di attenzioni giovanilistiche e di una infornata digitale, deve anche rimettere nel DNA dei suoi prodotti – di tutti i suoi prodotti – il senso della utilità al pubblico e al Paese. È il solo modo per giustificare l’entità e la stabilità delle risorse pubbliche che le vengono destinate. Serve una rilevante correzione di rotta di una cultura aziendale da anni più orientata al marketing che alla offerta di contenuti selezionati perché socialmente utili. Una correzione di rotta che non si improvvisa e che deve essere profondamente voluta e ricercata, sia nel mandato politico – molto distratto su questo tema – sia nella gestione di vertice.
La cultura aziendale non si inventa, la si costruisce in anni di scelte orientate. È quello che hanno fatto le dirigenze aziendali del dopoguerra, per decenni, anche attraverso visioni culturalmente e ideologicamente diverse, ma sempre orientate alla logica del servizio. È quello che progressivamente si è perduto a partire dagli anni ’80, sotto l’influenza di un liberismo sempre più individualista e meno attento alla riflessione etica. Proprio l’etica professionale deve essere ricostruita oggi, in una dimensione laica, aperta alla pluralità delle idee e esperienze, in una logica di supporto alle debolezze e alle periferie che il mercato ignora. Questo deve avvenire partendo dal basso, cioè dalle selezioni pubbliche dei neoassunti e dalla loro formazione permanente. Senza trascurare i quadri gerarchici aziendali, che non hanno bisogno di rottamazione o di pulizia etnica, ma ai quali va chiesto un processo di ricostruzione sostanziale delle motivazioni del loro lavoro in Rai.

Non rottamazioni ma cambiamenti necessari
È chiara la necessità di questo percorso ai vertici aziendali? Vorrei che lo fosse davvero, e se così fosse dedicherebbero maggiore attenzione alla consultazione pubblica, che è stata avviata dal governo sulla spinta degli organismi sociali, cioè degli organismi che scontano sulla propria pelle l’assenza di una politica di comunicazione orientata alla coesione sociale, e che sarebbero i primi alleati di una Rai riformata. In questa prospettiva è evidente la probabile inadeguatezza di immissioni forzate di manager esterni. Non sappiamo quanto siano consapevoli e correttamente orientati rispetto a quanto serve globalmente alla Rai. Se hanno maturato queste consapevolezze devono saper iniettare grande voglia di cambiamento nelle strutture, nelle modalità operative, nella scelta e nella gestione dei contenuti. Per farlo devono trovare alleanze nell’azienda, combattere con decisione la spinta conservatrice, fare scelte difficili dettate dalla qualità e non dagli schemi e dalle norme preesistenti. In questo potranno essere aiutati dalle molte energie positive ancora presenti in azienda.
Saranno capaci di identificarli e di fare le scelte giuste? O ascolteranno le voci dei più forti, quelle meglio coese al mercato, agli interessi economici per i quali l’Italia è solo una piazza di consumatori? I prossimi mesi, e il mandato pubblico legato al rinnovo della concessione in scadenza, saranno decisivi.

Fonte: http://www.remocontro.it/2016/04/29/rai-campionato-del-peggio-tra-dirigenti-interni-e-supervertici-paracadutati/


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