Più volte querelato, processato e sempre assolto, Pietro Comito, giornalista calabrese da sempre in prima linea nel contrasto alla ‘ndrangheta nel vibonese, si ritrova oggi condannato a dover risarcire un pregiudicato calabrese di diecimila euro. L’accusa è quella di diffamazione. Al centro della vicenda giudiziaria un articolo comparso il 19 novembre 2010 sul quotidiano Calabria Ora – per cui allora lavorava –, in cui Comito ricostruiva gli omicidi di due persone, il pezzo da novanta della ‘ndrangheta Damiano Vallelunga e il cugino Giovanni Vallelonga. La ricostruzione di Comito avveniva sulla base di indagini e intercettazioni precise: il giornalista di Calabria Ora si rifaceva a conversazioni captate da una microspia piazzata dalle forze dell’ordine nella famosa lavanderia “Ape Green” di Siderno – uno dei luoghi più significativi in assoluto nella storia del contrasto alle ‘ndrine, perché qui Peppe Commisso, boss di caratura internazionale, impartiva le sue direttive e riceveva personaggi della ‘ndrangheta provenienti da mezzo mondo. Damiano Vallelunga veniva trivellato di proiettili davanti al santuario di Riace nel giorno del suo onomastico, il 27 novembre 2009; il 20 aprile dell’anno successivo cadeva vittima di un agguato il cugino Giovanni Vallelonga. Comito scrive un articolo dal titolo «La tragica faida dei Vallelunga» sulla scorta di un’informativa, relativa a intercettazioni tra mafiosi che svelavano i retroscena dell’omicidio, certo dell’interesse pubblico insito nelle informazioni che divulgava. Nell’articolo Comito cita per due volte il nome di un personaggio già noto alle cronache giudiziarie perché autore di reati piuttosto pesanti. Lo stesso che querelerà il giornalista per diffamazione.
Il soggetto in questione era stato arrestato quattro mesi prima della stesura dell’articolo nell’ambito della nota operazione “Crimine”, con l’accusa di associazione mafiosa. Il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria annulla, però, la custodia cautelare e il soggetto viene scarcerato pochi giorni prima della pubblicazione dell’articolo di Comito. Immediata la querela al giornalista di Calabria Ora e a un altro collega che aveva trattato lo stesso caso. Entrambi i giornalisti vengono assolti in primo grado, ma sull’assoluzione di Comito si oppone la Procura generale di Catanzaro. Nel secondo grado di giudizio, la Corte d’Appello di Catanzaro condanna Comito a risarcire oltre diecimila euro al pregiudicato calabrese. Come spiega Comito, la sentenza rileva che il giornalista nell’articolo incriminato avrebbe dovuto specificare che il soggetto citato era stato scarcerato, sebbene questi fosse citato solo in rapporto alle intercettazioni delle ordinanze, senza, cioè, far cenno a arresti o scarcerazioni. Il giornalista si limitava a profilare lo scenario del delitto, «sulla scorta di alcune intercettazioni tra mafiosi che svelano i retroscena di un omicidio». Dunque, avrebbe dovuto rettificare un dato che non era stato riportato: «Partiamo da un presupposto di carattere universale per il nostro lavoro: la rettifica si fa ex post, dopo aver scritto l’articolo – spiega Comito –, avrei dovuto rettificare un notizia che non davo: avrei dovuto scrivere che il soggetto era stato scarcerato, quando nell’articolo in questione io non trattavo minimamente dell’arresto». Non di poco rilievo, inoltre, il fatto che l’oggetto dell’articolo non era il querelante.
Al dovere del giornalista di riportare informazioni di acclarato interesse pubblico, si oppone una sentenza che vuole il risarcimento ad un soggetto su cui pesano condanne per importanti reati. Allora – si chiede Comito – «ammesso e non concesso che io l’abbia diffamato, il trattamento sanzionatorio attraverso cui una Corte d’Appello mi impone di risarcire questo soggetto è identico a quello nei confronti di un soggetto incensurato? L’onorabilità di un uomo per bene è identica a quella di un pregiudicato per armi e lesioni?». Come detto, Comito non è nuovo alle querele: tra il 2008 e il 2011 si occupa del bagno di sangue che da Milano, a partire dall’assassinio di Domenico Novella, arriva in Calabria. Comito indaga e comprende le dinamiche della guerra di ‘ndrangheta in corso e scrive. A querelare il giornalista sarà il sanguinario «mammasantissima» Vincenzo Gallace, insieme a buona parte della sua famiglia. A differenza della vicenda giudiziaria in corso, quella si concludeva con l’archiviazione immediata della querela.
Le mafie cambiano vestito e pure strumenti. Se prima il linguaggio era quello della violenza esplicita, con i proiettili in busta e la macchina che salta per aria, con le lettere minatorie piene di parole di sangue e le gambizzazioni al primo sgarro, oggi una metamorfosi intelligente vede la ‘ndrangheta «punire» i nemici passando per i cavilli legali, che – come spiega Comito – si trovano sempre. «Il mafioso ha capito e non ti fa saltare in aria la macchina, ma ti querela. E non è una querela temeraria, perché quella viene archiviata. Chi lavora su atti giudiziari, con le intercettazioni, è sempre al limite – dice il Comito –. I mafiosi hanno fiumi di soldi, possono affidarsi ai principi del foro per far elaborare una querela e il “cavilletto” lo trovano sempre». I mafiosi hanno capito che il giornalista intimidito disturba: troppa attenzione sui casi dei cronisti minacciati. Casi che, per narcisismo o involontariamente, scatenano un fiume di solidarietà che fa da schermo ai cronisti, li protegge. La querela, soprattutto quando non temeraria, è l’arma più potente di cui le mafie si servono per spezzare la penna del cronista. Per cui Comito arriva a dire: «C’è bisogno che mi sparino o che mi gambizzino? Alla ‘ndrangheta non servono martiri». L’arrivo del caso in Cassazione e diversi elementi critici contestati dalla difesa del giornalista fanno sperare in una conclusione positiva della vicenda giudiziaria. Quello su cui si vuole puntare l’attenzione è l’assurdità di un caso che vede un cronista con la schiena dritta condannato a risarcire un criminale. «Anche se la vinco la querela – conclude Comito –, quanto mi viene a costare? E tutto questo per cosa, per un articolo? E conviene? No che non conviene». Che un giornalista del calibro di Comito posi la penna concretizza un punto a favore della ‘ndrangheta e naturalmente una Caporetto per il giornalismo. Quella del giornalista Pietro Comito è la testimonianza di una libertà a metà, di fatto strozzata e vessata da iniquità e soprusi.