Diverse e peculiari, innumerevoli e un pó misteriose, le società che con una spruzzata di folclore vengono definite off-shore sono nondimeno tutt’altro che estranee al metabolismo dell’economia mondiale. Non ne costituiscono la norma, tuttavia la integrano potentemente. E osservandole meglio, oggettivamente, appartandoci per un momento dallo scandalo che giustamente ne accompagna il periodico riemergere dalla penombra dei paradisi fiscali, possono aiutare a comprendere perché ne viene consentita l’esistenza. E’ come scandagliare la pancia del sistema illuminandola con una fibra ottica: un’operazione laparoscopica.
Zone a regime speciale, con livelli di discrezionalità giuridico-fiscale diversi ma tutti riconducibili al concetto di off-shore pullulano nel mondo: Andorra in mezzo ai Pirenei, tra Spagna e Francia, e scendendo lungo la costa mediterranea il Principato di Monaco; dalle isole di Jersey e Man all’Irlanda, davanti alla Gran Bretagna; Hong Kong e Singapore nel sud-est asiatico; lo stato di Delaware ad appena qualche decina di chilometri da Washington e lo stato del Nevada, che il gioco d’azzardo non lo pratica esclusivamente a Las Vegas; la costellazione delle isole caraibiche dalle Cayman alle Vergini, alle Bahamas, alle Anguille e ancora altre sparse nei vari continenti. Nessuna piazza d’ affari è estranea alle operazioni che si svolgono secondo moduli off-shore.
Il concetto stesso di off-shore, oltremare, locuzione che ha una risonanza mitica, tanto che noi la traduciamo in paradiso fiscale, non indica uno stato specifico, bensì un insieme di operazioni e strutture societarie che utilizzano gli spazi offerti da più paesi, spesso – non sempre- combinando gli effetti profittevoli di più d’uno e cercando di cumularli. Per determinate operazioni, Londra e l’Inghilterra possono risultare più paradisiache delle Bahamas. Ma sommando le semplificazioni del diritto societario (ovvero riducendone la trasparenza) di un luogo al più ampio segreto bancario di un altro e alle minori o inesistenti imposte di un altro ancora è possibile ottenere condizioni di straordinario vantaggio.
Dal punto di vista dell’economia reale, si tratta di una transazione di fatto tra pubblico e privato, tra le istituzioni giuridiche degli stati e il modo di produzione capitalistico della nostra epoca. L’ off-shore è un’articolata serie di stanze che potremmo definire di compensazione in cui gli stati permettono alle imprese medie e grandi, ma soprattutto agli onnipotenti gruppi transnazionali di ridurre di fatto e in misura più o meno notevole i prelievi fiscali a cui sono sottoposti gli utili delle loro attività. Altrimenti -affermazione ovvia e tuttavia non superflua-: non potrebbe esistere. Invece trova nella concretezza quotidiana una sua ragion d’essere. Che per essere compresa va spiegata nell’ incessante contrattazione in atto in molteplici sedi e livelli tra bene comune da una parte e profitto personale da quella opposta.
Negli ultimi quarant’anni la maggior parte dei paesi occidentali è progressivamente scivolata in una profonda crisi fiscale. Sia a causa dello squilibrio determinato dai criteri neo-liberisti di prelievo (il privato è più efficiente ai fini della crescita generale, quindi va favorito) che hanno penalizzato soprattutto i redditi medi e privilegiato quelli più alti, sia per effetto dei costi crescenti delle infrastrutture pubbliche di vario tipo al servizio della produzione (per dirne una, a memoria: l’enorme incremento del traffico e dei costi di gestione delle reti autostradali indotto dall’ introduzione del criterio just in time nell’approvvigionamento delle merci). Ne è conseguito un qualche irrigidimento non tanto della pressione tributaria quanto delle modalità di prelievo.
Il grande capitale investitore e le sue lobbies che esercitano un pressing permanente su governi e parlamenti fanno di tutto per sottrarvisi. Ma all’ interno della propria giurisdizione lo stato-nazione non può ammettere e meno ancora giustificare regimi fiscali privilegiati che violino palesemente il principio di uguaglianza. Lascia quindi che le pressioni non sempre garbate dei gruppi industriali e dei fondi d’investimento slittino verso l’off-shore, che è quel terreno di frontiera in cui gli stati possono fingere di ignorare ciò che non possono dire di non vedere in casa propria. Però la proliferazione di queste vie di fuga e la criminale pericolosità di troppi tra coloro che le percorrono minaccia adesso di far franare il precario equilibrio su cui si regge questo doppio gioco.
Altre terrificanti minacce si sono aggiunte al deficit fiscale che assilla gli stati occidentali e le rispettive opinioni pubbliche. E’ possibile, sebbene con pesantissimi danni collettivi, convivere con l’evasione e l’elusione fiscali. Lo facciamo da decenni: è una constatazione. Malgrado la meritevole opera pedagogica e d’intervento dottrinario dell’OCSE. Neppure il flagello del narcotraffico, che spesso percorre gli stessi oscuri ma non sempre sconosciuti sentieri off-shore del commercio d’armi clandestino, è stato sufficiente a scuotere i governi fino al punto di deciderli a combatterli entrambi risolutamente. L’ attentato alle Torri Gemelle ha però introdotto un elemento di tragicità dirompente nel cuore-vetrina del capitalismo. Il fondamentalismo islamico uccide, devasta e spinge centinaia di migliaia di profughi verso le nostre frontiere. Il mostro è sfuggito di mano ai suoi stregoni.
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