“Sono solo un giornalista che svolgeva il suo dovere lasciato a marcire in una prigione per mille giorni senza poter vedere un giudice”: queste parole sono contenute nell’ultima lettera inviata da Mahmoud Abou Zeid, detto Shawkan, fotoreporter egiziano che lavorava per l’agenzia britannica Demotix quando, il 14 agosto 2013, finì nella grande retata delle forze dell’ordine mentre stava documentando un sit-in convocato dalla Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya, uno dei quartieri del Cairo. Una retata che si trasformò in quello che, secondo le organizzazioni per i diritti umani, fu il più grave massacro degli ultimi decenni in Egitto. 6-700 morti, e i sopravvissuti arrestati, gettati in carcere e dimenticati lì dentro, senza processo e in condizioni disumane. Per Shawkan si contano già oltre mille giorni di detenzione che non sembrano finire: l’udienza, convocata due settimane fa, è saltata a data da destinarsi. Durante tutto questo tempo ha denunciato di aver subito torture e violenze di ogni tipo e per le condizioni delle carceri ha anche contratto l’epatite C per la quale gli è impedito ricevere cure sufficienti.
Il fotoreporter egiziano rischia l’ergastolo per accuse che vanno dall’adesione a un’organizzazione criminale all’omicidio, ma soprattutto gli viene contestata “la partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione per creare terrore” e il “tentativo di rovesciare il governo”. Ma Shawkan è un prigioniero di coscienza, incarcerato per aver svolto il suo lavoro e documentato un omicidio di massa.
Il suo caso è seguito dal procuratore generale egiziano Nabil Sadeq, lo stesso che si occupa del caso di Giulio Regeni. E a lui è rivolto l’appello sottoscritto, con grande generosità, per primi dalla mamma e dal papà di Giulio, Paola e Claudio Regeni, e dai loro avvocati, Alessandra Ballerini e Gianluca Vitale.
“Noi chiediamo – scrive Amnesty nell’appello – che le accuse nei suoi confronti vengano annullate e che, in attesa del rilascio, riceva tutte le cure mediche di cui possa aver bisogno“.
Noi di Articolo 21 ci uniamo alla famiglia di Giulio Regeni e ad Amnesty, sottoscriviamo questo appello alle autorità egiziane e chiediamo anche alle autorità italiane e all’Unione europea di intervenire: sono davvero troppe le vittime di arresti illegali, torture, violazioni di ogni forma di diritto in quel paese. Noi già da tempo abbiamo lanciato un’iniziativa che ci porterà, insieme a tante sigle a partire da Fnsi, Usigrai e Amnesty, il 2 maggio, vigilia della giornata internazionale della libertà di stampa, davanti all’ambasciata del Cairo a Roma, e davanti ad altre ambasciate, per assumerci la responsabilità di denunciare e chiedere conto di queste violazioni. Insieme a verità e giustizia per Giulio chiederemo con forza libertà per Shawkan e per le migliaia di prigionieri di coscienza dimenticati nelle carceri egiziane come in tutte le carceri del mondo. Contiamo di avere al nostro fianco le organizzazioni europea e internazionale dei giornalisti, ma anche tanti uomini e donne di diverse provenienze e settori, che sanno bene come la difesa dell’informazione sia la difesa di un pieno diritto di cittadinanza.
In una precedente lettera indirizzata alle migliaia di persone che avevano già firmato l’appello di Amnesty per lui, Shawkan scriveva alcune parole che facciamo nostre: “Nel mio paese si è perso di vista il significato della parola giustizia … Mi dispiace dovervi dire che sono diventato una persona ‘piena di vuoto di speranza’. Se resisto è per tutte le persone che stanno dalla mia parte, che non mi fanno sentire solo. Siete il mio potere, la mia energia. Continuiamo a gridare: il giornalismo non è un reato!”