Dopo l’accordo stretto il 18 marzo a Bruxelles dai leader dei 28 Stati dell’Ue e dal primo ministro turco Ahmet Davutoğlu – e fortemente caldeggiato dalla Germania – per molti migranti “illegali” è iniziato l’incubo.
Di Elena Paparelli
Nel testo dell’accordo è scritto: “tutti i nuovi migranti irregolari che hanno compiuto la traversata dalla Turchia alle isole greche a decorrere dal 20 marzo 2016 saranno rimpatriati in Turchia” mentre “per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia all’UE tenendo conto dei criteri di vulnerabilità delle Nazioni Unite“.
Come tutto questo verrà materialmente gestito e come si garantirà il rispetto dei diritti umani dei profughi, è ancora da vedere.
Rotta chiusa, questo è un vero e proprio “muro anti-migranti“, in cambio del ricollocamento dalla Turchia in Europa. Cifra prevista: 72mila siriani. Davvero pochi, rispetto all’entità complessiva dei flussi nell’ultimo anno.
Si tratta dell’ultima, estrema mossa di un’Europa da sempre incapace di gestire l’”emergenza migrazione”, mentre un efficace sistema dei ricollocamenti dei richiedenti asilo ha continuato a zoppicare.
Ci si interroga naturalmente sul destino dell’area di libera circolazione di Schengen, ma intanto l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere ha ritenuto più dignitoso sospendere le proprie attività nell’hotspot di Moria (isola greca di Lesbo) perché – come dichiarato dal capo progetto dell’ONG sull’isola, Michele Telaro “continuare a lavorare nel Centro ci renderebbe complici di un sistema che consideriamo sia iniquo che disumano”.
Medici senza frontiere aveva già denunciato a inizio d’anno “il catastrofico fallimento dell’Unione Europea nel rispondere ai bisogni umanitari di rifugiati, richiedenti asilo e migranti nel 2015″, sollecitando le autorità competenti a muoversi in una precisa direzione attraverso la costituzione di canali legali e sicuri per i richiedenti asilo (anche tramite la possibilità di chiedere asilo alle frontiere di terra e il ricorso facilitato a misure di riunificazioni familiari, visti umanitari e ricollocamenti); percorsi di migrazione legali per ridurre viaggi pericolosi e reti di trafficanti; un meccanismo ambizioso di ricerca e soccorso in mare, da effettuare vicino alle coste di partenza e con luoghi di sbarco predefiniti che garantiscano condizioni umane e assistenza medica; investimenti nell’accoglienza invece che nella deterrenza; schemi di ricollocamento più ambiziosi; l’eliminazione di violenze e abusi da parte delle autorità.
Dopo l’accordo “di convenienza” UE-Turchia cresce però lo scetticismo su una gestione lungimirante e inclusiva del fenomeno migratorio, che costituirà un nodo critico non soltanto in questo 2016, ma negli anni a venire: secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni tale fenomeno non si fermerà prima del 2050.
In questo scenario di fondo un’approfondita riflessione viene suggerita dall’ultimo World Migration Report 2015 a cura dell’International Organization for Migration (IOM) che ha per tema “Migranti e città: nuove partnership per gestire la mobilità”.
In che modo migrazioni e migranti stanno trasformando le città? Come incide la vita dei migranti su organizzazioni e regole di un nucleo urbano?
“Mentre la maggior parte dell’attuale dibattito internazionale sui trends e le politiche migratorie è a livello nazionale – ha specificato June Lee, che si è occupata della redazione dell’indagine – il rapporto sposta il riferimento del dibattito sulla migrazione verso la città”.
Il primo dato da tenere in considerazione: la mobilità, soprattutto urbana, è in crescita ma sono soltanto 20 le grandi città su cui si concentra circa 1 su 5 dei migranti nel mondo. E, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, molti dei flussi migratori riguardano anche le città del Sud globale.
Se questo è, una governance urbana inclusiva va chiesta per tutte le città del mondo, e non soltanto per quelle europee, in uno scenario in cui dagli attuali 3,9 miliardi di popolazione urbana si arriverà a circa 6,4 miliardi entro il 2050.
Secondo il World Migration Report, sono 232 milioni i migranti nel mondo, con un incremento del 41% dall’inizio del secolo. Fra le mete in testa alla classifica l’Europa (dove risiedono 76 milioni di migranti), l’Asia (75 milioni) e l’America del Nord (54 milioni).
I migranti più giovani sono gli africani (28 e 29 anni l’età media) in un quadro in cui l’età media si attesta invece sui 39 anni.
Ma va registrato anche che il numero più alto riguarda i migranti interni: 740 milioni.
Come ha sottolineato Gian Carlo Blangiardo sul Sole 24 Ore del 14 marzo scorso, “osservando la dinamica degli ultimi 15 anni si nota come il popolo dei migranti si sia accresciuto di ben 71 milioni di unità (sviluppandosi ad un tasso medio annuo del 2,3%, ndr)”. Il dato più interessante, e che dovrebbe farci aprire gli occhi rispetto alle politiche “emergenziali” che riguardano il fenomeno migratorio, è il fatto che la causa della mobilità, come sottolinea Blangiardo “non è dovuta solo a eventi eccezionali ma anche e soprattutto dal persistere di profonde diseguaglianze di cui le stesse vittime sono sempre più consapevoli e sempre più propense a mettersi in gioco per uscirne”.
Circa il 50% dei migranti internazionali risiede in dieci tra le aree più industrializzate e ad alto reddito del mondo: Australia, Canada e Stati Uniti in testa. Per quanto riguarda l’Europa: Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Un’alta percentuale di migranti internazionali sono poi in Russia, Arabia Saudita e Emirati Arabi. Concentrati nelle gradi città di questi Paesi.
La provenienza di due terzi dei migranti del mondo è data da Paesi “a medio reddito”, e soltanto il 10% dei migranti proverrebbe da Paesi “a basso reddito” (specie quelli nell’Africa sub-sahariana). Ma il numero di chi emigra da condizioni insostenibili è destinato ad arrivare 842 milioni fra dieci anni soltanto.
Valutando la componente anagrafica del Vecchio Continente con quella dei Paesi “a basso reddito” e in assoluto più giovani del pianeta, è facile prevedere un mutamento profondo nel volto delle città di domani fra appena un decennio.
E non c’è muro che potrà arrestare il naturale cambiamento delle cose.