Non vi è dubbio alcuno che l’editoriale di Eugenio Scalfari, pubblicato su Repubblica di domenica 3 aprile, rappresenti, in modo pericoloso, un clamoroso “segno dei tempi”, di natura culturale e politica. È la prova, semmai ve ne fosse stato bisogno, di uno spostamento verso la “razionalità renziana” del quotidiano più diffuso della nazione, e forse il più letto, e con esso dell’intero blocco sociale che rappresenta, soprattutto dopo l’accordo De Benedetti- Agnelli. Questa torsione viene accompagnata dal tentativo di creare egemonia culturale, di costruire un clima pubblico più favorevole al premier, chiamato nei prossimi giorni e nei prossimi mesi a prove durissime per il governo del Paese. Non è un caso che l’editoriale di Scalfari venga pubblicato all’indomani dello scambio “affettuoso” tra Renzi e Marchionne, negli Stati Uniti. Marchionne ha pubblicamente elogiato il nostro presidente del Consiglio, affermando che l’avrebbe certamente votato, e Renzi ha ricambiato l’endorsement sostenendo che ha fatto più Marchionne per l’occupazione che “certi sindacalisti”. Se dunque il modello culturale e industriale della “razionalità renziana” resta Marchionne, come poteva quel quotidiano non procedere ad una “revisione” della propria linea editoriale, tenendo nel debito conto che ormai esso convive con Stampa, Secolo XIX e una caterva di altri media, radiofonici e televisivi? La revisione culturale e politica proposta da Eugenio Scalfari scomoda non solo vicende di stretta attualità, ma perfino un giudizio storico, francamente poco attendibile.
La linea di pensiero di Scalfari: la vicenda Guidi è “episodio microscopico”
La linea di pensiero di Scalfari è la seguente: nel mondo e nell’Europa, Italia compresa, torturati da decine di problemi globali, che si intrecciano magmaticamente, la vicenda delle dimissioni della ministra Guidi appare come il classico “cerino” che fa divampare l’incendio, un “episodio microscopico” che tuttavia ha permesso di “sottolineare” un fenomeno “dominante da secoli. Corruzione e mafie. Corruzione e trasformismo. Corruzione e rabbia sociale. Corruzione e potere”. Poi, però, invece di entrare nel merito di questo “fenomeno”, esprimendo finalmente un giudizio sulla nostra “razza padrona” (non si capisce altrimenti chi e perché corrompa chi), Scalfari affonda il tackle retorico sul merito del referendum del 17 aprile.
Il “compromesso” come arte positiva del governare
La torsione verso la “razionalità renziana” diventa evidente a questo punto, con l’uso di una sola, significativa, parola “compromesso”, tra le “ragioni” del petrolio e quelle della salvaguardia ambientale. Con la tesi del ”compromesso” necessario, Scalfari mina alla base il referendum sulle trivellazioni, chiesto e ottenuto da nove Consigli regionali, affermando che meglio sarebbe “un’astensione di massa” che ne “annulli l’esito”. La tesi del “compromesso” necessario tra il bisogno di produrre petrolio, energia scarsa e sporca, e di salvaguardare l’ambiente è non solo datata, e superata dagli impegni sottoscritti a Parigi a dicembre scorso, nell’ambito di COP 21, che prevedono investimenti in sviluppo sostenibile. Ma è stata politicamente e culturalmente sfidata da quel papa Bergoglio, tanto amico di Scalfari, che a partire dall’Enciclica Laudato sì, ha mobilitato credenti e parrocchie, schierandoli per il voto, e per il voto abrogativo. Scalfari omette queste e altre obiezioni, e sostiene perfino che l’emendamento, nonostante fosse già stato dichiarato inammissibile dal presidente della Commissione Ambiente della Camera, Realacci, “era pienamente accettabile”.
Quell’emendamento sulle concessioni era accettabile, secondo Scalfari, in base al “compromesso”. Nel 1980, forse, non nel 2015
Accettabile? Forse nel 1980, ma non nel 2015, non nella Lucania, che si appresta a celebrare nel 2019 i fasti di capitale europea della cultura, svenduta a due colossi del petrolio come la Total e la Shell, con la benedizione dell’Eni, che “regalano” alle comunità locali royalties da “pezzenti”. No, il referendum del 17 aprile e il caso Guidi hanno assunto significati politici che oltrepassano il merito del quesito e il merito dell’emendamento. Per questo, non all’astensionismo, ma alla partecipazione più larga possibile avrebbe dovuto e dovrebbe fare appello Eugenio Scalfari. È in gioco un punto fondamentale della nostra democrazia: chi decide e come si decide in materia energetica e ambientale. La “razionalità renziana” prevede che sia l’esecutivo, e a questa Scalfari sembra aver ceduto. La razionalità democratica, quella più volte invocata da Jurgen Habermas, come tratto distintivo della civiltà europea, sia pure in pericoloso decadimento, prevede invece che siano le popolazioni, le comunità, le istituzioni rappresentative a doversi esprimere. E la razionalità democratica, direbbe ancora Habermas, è nemica “dell’uomo solo al comando”. Ma la torsione verso la “razionalità renziana” costringe invece Scalfari a una legittimazione dell’uomo solo al comando. Prima sostiene, sbagliando che nelle democrazie occidentali “esiste un capo che comanda da solo”, e cita gli Usa e la Francia (repubbliche presidenziali dove il presidente è eletto dal popolo, non nominato, e i recinti del suo potere sono stabiliti perfettamente), la Gran Bretagna e la Germania, dove però premiership e leadership del partito di maggioranza coincidono, conferendo ai Parlamenti e ai partiti un notevole potere di interdizione. Inoltre, se la Gran Bretagna è il regno dei cosiddetti “checks and balances”, dei pesi e contrappesi istituzionali, la Germania per effetto del federalismo rigido (con un Parlamento ad hoc dei lander, il Bundesrat) contrappone i diversi poteri, centrale e disseminati, per cui neppure la Merkel può dirsi “donna sola al comando”. In realtà, per tornare alla lezione di Habermas, la “razionalità renziana” non ha nulla di democratico, in senso occidentale.
Per Scalfari, Renzi è come Giolitti. Ma avrebbe dovuto rileggere Gramsci
Si diceva anche della necessità, per Scalfari, di adattare a Renzi un personaggio della storia d’Italia al quale paragonarlo. Berlusconi? Ma no. Craxi? Neppure. Scalfari s’inventa un Renzi al quale si adatterebbe l’abito di Giovanni Giolitti. E qual è il senso che Scalfari attribuisce a tale notevole paragone storico? La capacità del “compromesso”, come arte della politica e del governo dei processi. E poiché il “compromesso” è un’ideologia positiva (Scalfari sostiene perfino che Giolitti fosse un “liberale progressista”), ecco l’esaltazione comparativa dei due uomini. Il “compromesso” tra sinistra moderata e destra moderata segna anche la similitudine col partito della nazione, vero obiettivo dell’articolo di Scalfari. Così, si chiude il cerchio, e si cerca di dare legittimazione intellettuale a un’operazione, quella del renzismo, di pura gestione del potere, intrisa di “ideologia del fare”, in cui qualunque cosa va bene, anche trivellare, svendere intere comunità, costruire inutili ponti, promettere mancette ai diciottenni, senza poi mantenere la promessa, sventrare la scuola pubblica, eliminare i diritti nel lavoro e al lavoro. Solo per citare alcuni dei capitoli di questa “razionalità renziana”.
Eppure, sarebbe bastato che Scalfari avesse ripassato la lettura di un celebre brano dai Quaderni del carcere di Antonio Gramsci, scritto tra il 1933 e il 1934, proprio su Giolitti: “il programma di Giolitti e dei liberali democratici tendeva a creare nel nord un blocco urbano, di industriali e operai, che fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte, ed era tenuto disciplinato con due serie di misure: misure poliziesche di repressione spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici dei contadini e misure poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli intellettuali”. È questo il Giolitti che Renzi incarna, secondo Scalfari? A giudicare dalle carte giudiziarie della vicenda Guidi pare proprio di sì.