L’anniversario sta in se stessi

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 “I duellanti” da Conrad, di scena  al Teatro Quirino di Roma- Con Alessio Boni e Francesco Meoni

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Scritto agli inizi del ‘900 e ambientato fra caserme, piazze d’armi, accampamenti dell’esercito napoleonico, “The duel” di Joseph Conrad, cui si rifà una messinscena cupa e a suo modo inflessibile (diversa  dall’esuberante, agghindato film di Ridley Scott del 1977) è, in superficie, l’affresco di un mondo cavalleresco, sospeso tra vitalismo e percezione della fine incombente in quel particolare, esclusivo mondo della  cavalleria e degli eserciti ottocenteschi, che le nuove logiche militari del ‘secolo breve’ avrebbe spazzato via senza, (vien da dire) concedere ai ‘predecessori’ nemmeno…l’onore delle armi. Che, da un certo punto, in poi sarebbero state ‘da fuoco’ e ‘a ripetizione’, dunque industrializzate (come ancora lo sono) per accumulazione e gestione di profitti di guerra, sostitutivi di quelli che, per millenni, erano stati i bottini, le prede, le occupazioni. Come dire? L’etica militare avrebbe reso  smisurati ed economicamente ‘redditizi’ stermini ed eccidi sui campi di battaglia, nelle città bombardate o nei futuri lager dell’umanità da ‘scartare’.

Il mondo di  Conrad è dunque (a suo modo, forse inconsapevolmente)   il geniale ‘de profundis’, il ‘canto del cigno’ di due sconosciuti  avversari non  militanti su fronti opposti, ma entrambi Ussari   della  Grande Armée di Napoleone Bonaparte.
“Per motivi a tutti ignoti –leggo da una manuale di sintesi- essi inanellano sfide e duelli che li accompagneranno  lungo le rispettive carriere, senza che nessuno sappia il perché di questo odio così profondo”. Vicissitudini che renderanno  famosi i due avversari non tanto per il loro valore di combattenti sfegatati,  quanto per l’ eroica fedeltà ad una sfida insaziabile,  durante i vent’anni che  accompagneranno entrambi al   ‘duello decisivo’, anch’esso meta ed inizio di sorprese e reciproci ricatti prolusivi di una disputa che, presumibilmente, non avrà fine.

Se non dando ad essa (ciascuno a suo modo) significati allegorici, metafisici, freudiani non tanto dissimili da quelli già rivelati  (tra le opere di Conrad) da “Cuore di tenebra”, “Nostromo”, “Lord Jim”, “La linea d’ombra”. Oltre ad accostamenti, non azzardati, alla ‘grande scuola’ dell’ossessione e dell’incubo -pervicace che attraversa il romanzo occidentale lungo il fil- rouge che scaturisce da Melville, tocca Kafka e Faulkner , e si completa nella generazione dei ‘mondi veri ma assurdi’ constatati da Camus, Beckett, Durrenmatt.

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Ma, al dunque, perché le trame  della vita e del destino sfuggono di mano sia ai due Ussari, sia al  lettore\spettatore? Per la ‘banale’ spiegazione  (memorabile, icastica, diaristica in “L’avversario” di Emmanuel Carrère del 1999)  che non esiste ragione del contendere se non nei fantasmi interiori, negli esuberanti grovigli dei rivali ‘per insondabile vocazione’.  Nessuna analogia, quindi, con la tradizione dei grandi ‘duelli’ letterari (Ettore e Achille, Orlando e Rinaldo, Alfio e Turiddu, gli stessi Caino e Abele), ma qualcosa di più illusorio, fuggevole, ingannevole che giunge riduttivo ricomporre- proprio come accade nel fremente spettacolo di Boni e Aldorasi- in una disputa di cappa e di spada, di agguati e cavalieri, ma nella pertinente intuizione d’un ambiente circoscritto, desolato, a luce fioca (poco più di un deposito di attrezzerie in disuso) che restringe ad uno stanzone, ad una gabbia mentale quello che in Conrad (e nel film di Scott) era l’epico susseguirsi di lande, avamposti, steppe,  lerce caserme
“L’avversario più feroce lo hai dentro di te e non riesci a liberartene per il semplice fatto che sei tu che non vuoi liberartene”- annotano i due registi. Proseguendo con una citazione che lo scrittore Erlando  Affinati  dedica alla ‘testarda’ epopea di Conrad.  “Autore che ci spiega come si fa a diventare adulti: bisogna scegliere, ma ciò significa rinunciare a qualcosa di se stessi, non soltanto ai rami secchi, che non costerebbe nulla; anche a quelli fioriti, persino ai più belli. E questo è molto meno facile. Perché è una vera e propria amputazione spirituale”. Perfetto: la sensazione è che la trasposizione scenica ‘ometta’ (negligenza? distrazione? non identificazione?)  la pervicacia puerile, assoluta, irragionevole con la quale ciascuno dei contendenti prova a dimostrare a se stesso l’onnipotenza, l’assolutezza di una ‘vita adulta’ inaccessibile sino a che l’empietà, la cecità, l’ ‘irregolarità’ della Storia (nel suo presunto divenire) non farà strame  di chi “non è ancora cresciuto”. Ma al prezzo di nuove vittime, barbarie, tirannide, macelleria sociale (con quotazioni di nuovo in rialzo).

Se valutiamo queste deduzioni non ‘conseguenza’ emozionale-intellettiva dello spettacolo, ma spontanee divagazioni del dopo-teatro, fra amici e compagni di platea, si giunge alla conclusione di una rappresentazione generosa, aitante, di forte impatto muscolare- ma priva di scandaglio analitico, drammaturgico, interpretativo (specie per quel che attiene le prestazioni  ribalde, canagliesche ma di maniera di Boni e Meoni).

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I DUELLANTI

traduzione e adattamento Francesco Niccolini
drammaturgia Alessio Boni   Roberto Aldorasi

Con  Francesco Meoni e Alessio Boni
Marcello Prayer   Francesco Niccolini
Violoncellista Federica Vecchio
maestro d’armi Renzo Musumeci Greco
musiche Luca D’Alberto
scene Massimo Troncanetti
costumi Francesco Esposito
light designer Giuseppe Filipponio
regia Alessio Boni e Roberto Aldorasi
-Teatro Quirino, Roma   


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