È vero, come sostengono le fonti più ottimiste, che l’Occidente sta vincendo la guerra contro il terrorismo? È vero che la nostra cultura è destinata ad avere comunque la meglio contro i seminatori di odio, terrore e morte? A mio giudizio, la risposta è no. E non perché non sia convinto che il nostro modello di vita e di sviluppo non sia di gran lunga migliore rispetto all’oscurantismo e alla grettezza propugnati dai fondamentalisti ma perché la verità è che stiamo diventando fondamentalisti anche noi.
Prendete la Francia, dove ormai il lepenismo ha fatto talmente scuola che pur essendo al governo una compagine sedicente di sinistra, assistiamo da mesi a proposte che non sarebbero venute in mente non a Marine Le Pen ma nemmeno a suo padre, fascista mai pentito e sostenitore delle truppe dell’OAS che compirono massacri in Algeria.
Prendete la ricca e fiorente Germania, dove da oltre un anno vediamo all’opera formazioni estremiste come PEGIDA o convintamente anti-europeiste come Alternative für Deutschland; senza contare l’avanzata dei neo-nazisti che, nell’indifferenza generale, hanno eletto un proprio rappresentante al Parlamento europeo.
Tralasciamo il contesto italiano, dove, come sempre, la situazione, per dirla con Flaiano, “è grave ma non è seria”, e prendiamo ad esempio la Gran Bretagna, dove fra tre mesi si celebrerà un drammatico referendum per decidere la permanenza o meno del paese nell’Unione Europea.
Per non parlare poi del nazi-fascismo dilagante a est, dove siamo tornati ai tempi dei pogrom e delle persecuzioni degli anni Trenta: ieri ne erano vittime gli ebrei, oggi i migranti, ma la vergogna è la stessa e le immagini dei vagoni piombati che attraversano l’Ungheria, al pari del filo spinato alla frontiera, dei respingimenti, delle richieste di sospendere Schengen e di altre infamie portate avanti dal “gruppo di Visegrad”, ci riportano alla mente una stagione che mai avremmo voluto non dico rivivere ma neanche rievocare.
Infine, guardiamo agli Stati Uniti, dove la radicalizzazione del dibattito politico è tale che sul versante repubblicano la sfida è fra due personaggi come Trump e Cruz, pericolosi per l’America e per il mondo, in quanto palesemente inadeguati, spaventosamente populisti, entrambi fautori della dottrina unilateralista tipica della frangia più esagitata dei conservatori, privi di una visione compiuta della politica estera e dei rapporti internazionali e intenzionati a smantellare tutte le conquiste sociali e civili ottenute dall’amministrazione Obama. Davvero possiamo sostenere, razionalmente, che i valori dell’Occidente stiano trionfando sull’estremismo dei fondamentalisti del Daesh?
Attenzione a non confondere le pur importantissime vittorie sul piano militare (come, ad esempio, la riconquista di Palmira) con la vera vittoria che bisogna conquistare contro questo mostro che non è esterno a noi, non viene con i barconi sgangherati che approdano a Lampedusa, non è disposto a rischiare la vita pur di venire a recapitare il proprio messaggio di morte: vive al nostro interno, nelle nostre periferie, nei nostri quartieri dimenticati, nel nostro regno della miseria e della disoccupazione, là dove l’alternativa è spesso fra la povertà e il crimine. Non a caso, l’attività di spaccio o la piccola manovalanza delinquenziale è l’esperienza comune, insieme al carcere, della maggior parte degli attentatori suicidi, a dimostrazione che il malessere sociale non è la causa scatenante dell’odio anti-occidentale che muove gli aspiranti terroristi ma è senz’altro un eccellente terreno di coltura per le predicazioni wahhabite che esortano alla guerra santa contro gli infedeli e alla distruzione della nostra cultura e civiltà.
Il fanatismo come causa, l’emarginazione sociale come miccia, la violenza selvaggia e sconsiderata come conseguenza, la successiva radicalizzazione del nostro dibattito pubblico e dei nostri attori politici come inevitabile risultato di questa spirale di distruzione civica che dal 2001 in poi ha minato le basi stesse del nostro stare insieme. E adesso si susseguono le denunce, le analisi, le proposte e le soluzioni tardive di quanti si stanno rendendo amaramente conto dell’insostenibilità di un modello economico e di sviluppo che alimenta la barbarie e dà man forte ai predicatori d’odio, favorendo la deriva jihadista che sta insanguinando le nostre capitali.
Sarebbe, tuttavia, sbagliato cedere allo sconforto o credere che questa guerra sia persa in partenza: culturalmente possiamo ancora prevalere, ma dovremo essere in grado di far comprendere anche a chi vive nelle banlieue o nelle tante Molenbeek disseminate alla periferia del nostro impero di cartapesta che la cultura della vita, dell’integrazione, del dialogo, del confronto, della tolleranza e del rispetto reciproco non solo conviene a tutti ma è assolutamente indispensabile per scongiurare un conflitto fratricida dal quale nessuno può illudersi di uscire incolume.
E perché questo avvenga è necessario far nostro il messaggio di papa Francesco, rendere e le comunità musulmane protagoniste della lotta contro il terrore e privare i seminatori di inciviltà della tacita copertura di chi non si sogna neanche lontanamente di farsi esplodere in un aeroporto o in una stazione della metropolitana ma considera gli attentatori di Parigi e di Bruxelles alla stregua di eroi anziché di criminali.
Solo attraverso una presa di coscienza da parte del mondo islamico potremo ottenere la sicurezza che inseguiamo vanamente da quindici anni. Tutto il resto, l’intelligence europea, la collaborazione tra le varie forze di polizia, un controllo congiunto alle frontiere e via elencando, è essenziale sul piano materiale ma non riuscirà a compiere il miracolo possibile di cui abbiamo più che mai bisogno: sradicare la malvagità dall’anima profonda delle comunità islamiche e rendere conveniente la cultura dell’incontro, della fratellanza e della cooperazione tra diversi, con l’auspicio che comincino a sentirsi parte di una collettività in cammino, che avvertano finalmente il senso di una comunità di destino.