L’accordo tra Europa e Turchia ha posto sin dall’inizio numerosi e gravi problemi; molte delle garanzie espresse sembrano esistere soltanto sulla carta. 202 espulsioni dalle isole greche il primo giorno (prevalentemente di pakistani e afgani), 124 l’8 Aprile e sono già stati commessi i primi “errori” perché ad alcuni richiedenti asilo non è stata data la possibilità di fare domanda. Questi rinvii si configurano come respingimenti di massa?
Anzitutto va detto che l’intera situazione è avvolta dalla più totale confusione. L’accordo contiene frasi generiche e contraddittorie tra loro, non c’è nulla di dettagliato, come se chi l’avesse steso fosse stato consapevole dell’opportunità di dire e non dire; è un testo anomalo anche da questo punto di vista. Per quanto riguarda i respingimenti: l’accordo parla in modo generico di “restituzione alla Turchia”, ma quando si scrive che tutti i migranti irregolari arrivati illegalmente sulle isole greche dopo il 20 Marzo verranno rinviati in Turchia, si stanno legittimando i respingimenti collettivi in violazione al protocollo addizionale n° 4 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, che li vieta. Ogni caso infatti va esaminato individualmente; non si può stabilire di rinviare in Turchia chiunque sia arrivato illegalmente senza sapere se tra queste persone ci sono casi inespellibili, chi ha già parenti in Europa, categorie vulnerabili, richiedenti asilo a cui per qualche ragione non viene data effettivamente la possibilità di fare domanda. È gravissimo che in un documento ufficiale siano state scritte cose del genere.
L’accordo fa una strana distinzione, su cui si regge l’uno-per-uno, tra siriani giunti legalmente e siriani giunti illegalmente in Europa. Che senso ha fare questa distinzione? Ed è legittimo farla?
No, è una distinzione giuridicamente infondata perché per i richiedenti asilo l’ingresso illegale non si configura come atto perseguibile, e questo è un principio che ci viene dalla Convenzione di Ginevra; per chi scappa da un paese in guerra, il ricorso a canali irregolari per arrivare in uno stato a cui chiedere protezione è la norma, e non è oggetto di sanzioni.
Inoltre, dato che ogni domanda di protezione deve essere esaminata in modo individuale, come stabilito dalle convenzioni internazionali, non è legittimo parlare di nazionalità a meno che non si faccia riferimento a paesi per i cui cittadini si rendano necessarie misure di tutela. Quindi, il primo punto è che sulla base della modalità di arrivo, legale o illegale, non si può determinare alcuna distinzione giuridicamente fondata tra i siriani che possono restare e quelli da rimandare in Turchia. Andando avanti il testo dell’accordo crea altri nodi di confusione parlando dei siriani in arrivo senza che si capisca se si tratti di richiedenti asilo o meno. Ma come potrebbero non esserlo, data la situazione in Siria? E anzi, come potrebbero non essere riconosciuti come rifugiati, titolari di protezione internazionale?
E veniamo al punto più critico: quando si dice che un siriano può essere rimandato in Turchia, ma non si dice se si tratta di un siriano che ha fatto domanda d’asilo o di un siriano in quanto siriano, che quindi non sarebbe richiedente, si sta facendo un pasticcio linguistico. Nel primo caso infatti, se il siriano è un richiedente asilo non può essere rimandato indietro e la sua domanda deve essere esaminata; e il secondo caso non si dà, data la situazione oggettiva della Siria. Tanto più che poche righe dopo – e qui c’è l’ennesima contraddizione di questo accordo – quando si stabilisce che per ogni siriano rinviato in Turchia ne verrà reinsediato uno in Europa, non si fa che riconoscere i siriani come bisognosi di protezione. E però il diritto alla protezione spetterebbe solo ad alcuni di loro? In realtà, la frase in cui si dice che per ogni siriano rimandato in Turchia ne verrà reinsediato un altro in Europa, è uno scandalo per il pensiero totalitario che c’è dietro: allo stesso tempo si riconosce il bisogno di protezione, ma si decide arbitrariamente a chi concederne il diritto. In altri termini, si decide di punire un siriano che ha tentato di arrivare in Europa e lo si rimanda indietro, per prenderne un altro con eguale bisogno di protezione, ma che non abbia osato venire da solo; si riconosce il bisogno di protezione, ma questa viene data come benevola concessione e in base a una logica punitiva, non a chi è scappato da solo per venire a chiedere asilo, ma solo a coloro che è l’Europa ad andare a prendere. Tutto ciò, oltre a non avere alcun fondamento giuridico, tradisce una mentalità autoritaria e determina l’estrema gravità etica di questa situazione.
Inoltre l’uno-per-uno, in realtà, smentisce che per ogni siriano rinviato in Turchia ne verrà trasferito un altro in Europa. Il tetto è estremamente basso e i reinsediamenti sono su base volontaria.
L’unica soluzione efficace sarebbe consistita nello stabilire da principio un piano di accoglienza europeo per un certo numero di siriani (numeri molto superiori rispetto a quelli previsti dall’attuale accordo), e poi procedere ai reinsediamenti dalla Turchia. A quel punto si sarebbe dovuta fare un’ampia campagna di dissuasione dalle partenze illegali. L’accordo firmato il 18 Marzo invece, a questo riguardo sembra essere in mala fede: se si vuole contrastare il traffico di essere umani, si deve partire da un piano di reinsediamenti per far accedere i rifugiati alla protezione in Europa e da un’azione concreta di dissuasione proprio in virtù del resettlement e non, come si sta facendo, procedere a uno “scambio di prigionieri”. Come ha scritto autorevolmente anche Amnesty International, questo accordo è viziato sia dal punto di vista morale che giuridico, in maniera irrevocabile. Rappresenta una grave caduta etica e del diritto, dovrebbe essere cancellato ed archiviato come un buio episodio della nostra storia.
Nei mesi scorsi in alcuni paesi europei si è parlato di riconsiderare gli afgani come provenienti da un paese sicuro. Questa però sembra essere stata più una contromisura a fronte dell’elevatissimo numero di richieste d’asilo da parte dei siriani che una valutazione dovuta a un effettivo miglioramento delle condizioni di sicurezza in Afghanistan.
Il tasso di riconoscimento delle domande d’asilo dei cittadini afghani è effettivamente in rapidissima discesa, ma resta comunque tra i più elevati; supera il 60% in Europa e l’80% in Italia. Quindi ancora una volta non si capisce come si possa parlare di accordi di rimpatrio per una popolazione con percentuali di riconoscimento della protezione tra le più alte. A limite, questo discorso potrebbe aver senso in casi opposti, con i tassi di riconoscimento più bassi. L’asilo dovrebbe essere una procedura che risponde a normative rigorose, indipendenti e imparziali, scevre da ogni condizionamento politico. Ma dato che la situazione in Afghanistan sta tutt’altro che migliorando, sorge il dubbio che le procedure d’asilo non siano così esenti da condizionamenti e pressioni politiche. Il caso degli afghani fa emergere ancora una volta la situazione di crisi del diritto d’asilo, se questo smette di essere un diritto per diventare una “concessione del sovrano” che si può decidere di elargire o meno.
Tornando all’accordo, sorprende che a fronte delle tante lentezze, disaccordi e opposizioni che hanno caratterizzato finora la gestione europea dei flussi migratori e dei richiedenti asilo, dopo la firma del 18 Marzo le cose siano andate avanti in modo estremamente rapido. Penso anche al voto del Parlamento greco, che è arrivato in fretta e furia 3 giorni prima che iniziassero le operazioni di rinvio in Turchia. E troppo frettolosi forse si è stati anche in merito alla Turchia, che non presenta le condizioni per essere considerato paese terzo sicuro.
Questo in effetti rischia di essere uno dei punti più sfuggenti. L’accordo ha preceduto temporalmente la modifica della legislazione greca sulle procedure di asilo e sul concetto di paese terzo sicuro rispetto alla Turchia. Ciò indica come ancora una volta alla Grecia si diano solo ordini da eseguire; è come se fosse un paese senza sovranità, il potere legislativo greco non viene considerato. La cosa è di una volgarità estrema: si dice che cosa farà il parlamento greco prima che il parlamento lo abbia deciso; un tempo almeno – lo dico provocatoriamente – negli accordi tra governi si usava l’eleganza di far fare le cose sottobanco, con le pressioni del caso, e poi, a fatti avvenuti, si vedevano le conseguenze.
Venendo alla Turchia: già di per sé quello di paese terzo sicuro è un concetto limite che pone una serie di problemi ed è da sempre oggetto di critiche, perché limita l’applicazione della Convenzione di Ginevra in maniera piuttosto arbitraria; ricorrendo a questo concetto, il paese a cui si rivolge un richiedente protezione può sollevarsi dalla responsabilità – che la convenzione stessa gli pone in capo – di esaminare la domanda di protezione, rimandando il richiedente a un paese terzo. Ora, se questo meccanismo può avere una sua logica nei sistemi comunitari, come nel caso dell’UE col regolamento Dublino, stabilendo dei criteri che pure si sono rivelati difficili da applicare, il presupposto è che l’ambito di applicazione sia quello di un sistema di stati legati da standard e normative il più possibile comuni e dotati di un sistema sovranazionale di tutela del diritto d’asilo, materia appunto fortemente comunitaria. Questo meccanismo non è assoluto neppure all’interno dell’unione di stati, tanto che la Grecia è stata condannata, dalla Corte di Strasburgo prima e dalla Corte di Giustizia poi, per carenze sistemiche nel sistema di protezione. Curioso quindi che oggi i rinvii avvengano proprio da un paese con carenze sistemiche, che non potrebbe ricevere né ricevere richiedenti asilo o migranti dagli altri paesi membri, né trattenerli sul proprio territorio.
Ad ogni modo, e al di là delle criticità, il concetto è entrato a far parte del diritto europeo. Ma oltre ad essere una nozione facoltativa, che ad esempio l’Italia non ha recepito nel proprio ordinamento, deve anche rispettare parametri molto precisi, altrimenti si avrebbe di fatto un annullamento della Convenzione di Ginevra. Così la Direttiva 2013/32/UE, che contempla il rinvio di un richiedente asilo verso un paese terzo sicuro, definisce tale il paese terzo che offra garanzie, rispetto al trattamento della domanda di protezione internazionale, pari a quelle che offrirebbe il paese a cui il richiedente si rivolge. Ora, queste garanzie in Turchia non ci sono e con la limitazione geografica alla Convenzione di Ginevra, la domanda d’asilo in Turchia non si può fare. Quindi anche a voler forzare al massimo i concetti giuridici, il testo della Direttiva a questo proposito parla chiaro; il diritto di accedere alle pari garanzie e alle procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato in Turchia non c’è, quindi non lo si può considerare un paese terzo sicuro. E qui si torna al punto iniziale: l’accordo è scritto così perché è pieno di cose che non si possono fare; per questo non è un accordo di dettaglio, non cita norme, non cita disposizioni, le frasi sono vaghe ed ambigue: si voleva lanciare un segnale politico ben sapendo che questo sarebbe andato a cozzare con una serie di vincoli giuridici.
Del resto lo hanno detto gli stessi contraenti: con questo accordo si vuole far passare un messaggio. Che però, oltre a contenere aspetti autoritari, sembra anche essere un messaggio di sconfitta.
È come se, incapaci di affrontare veramente il problema degli arrivi e del crescente bisogno di protezione internazionale, gli stati europei fossero disposti a tutto. Sostanzialmente è come se ci si fosse intesi su un accordo che non si può scrivere, ma in cui si assume che il diritto d’asilo può essere sospeso, che non è applicabile, e che trovandoci in una condizione d’emergenza, l’emergenza riguarda proprio la sospensione del diritto d’asilo – anche se non si dice. Per coloro che sono arrivati in Europa si gestisce la situazione, ma per gli altri si ricorre a misure che si sa di non poter prendere. Ed è per questo che l’accordo è illegale, non in un dettaglio o in alcuni punti, ma nel suo impianto complessivo, in tutti i suoi aspetti. Questa situazione è di una gravità estrema. È la crisi del diritto d’asilo.
Certo, a questo stato siamo arrivati dopo un lungo percorso di fallimenti sui tentativi di riforma del sistema d’asilo. Un episodio significativo è quello dell’Agenda europea sulla migrazione del 2015: alcune delle proposte erano troppo timide, c’erano alcuni aspetti critici, ma l’agenda conteneva anche elementi positivi. E soprattutto prefigurava un piano di reinsediamento, inizialmente sperimentale, che sarebbe poi entrato a regime in modo stabile e obbligatorio. Il progetto però ha incontrato l’ostilità di molti paesi europei e si è arenato, nessuna di quelle proposte è stata portata avanti e intanto nell’estate 2015 la situazione è precipitata.
Ora per riformare il sistema comune d’asilo vengono riprese le proposte dell’Agenda in merito al reinsediamento e alla ricollocazione, ma sono più timide e meno dettagliate di quelle del Maggio 2015. Certo, s’inizia ad affrontare la questione Dublino, cosa che l’Agenda dello scorso anno non faceva, ma è proprio perché siamo in una situazione d’emergenza, che si è degradata dal 2015, che le proposte della Commissione avrebbero dovuto essere più coraggiose. E soprattutto, mi preme far notare lo iato che si crea tra i comunicati, le dichiarazioni, le agende e le proposte che vengono dall’Europa, e la realtà attuale che invece viene gestita con una sospensione di fatto del diritto. Sospensione del diritto d’asilo a livello europeo e sospensione dello stato di diritto in Grecia, dove ormai sembra che tutto sia possibile.