Non tutti lavorano meglio al tempo del Jobs act: se da un lato nel primo anno di applicazione della nuova legge si sono registrati nuovi contratti a tempo indeterminato e stabilizzazioni, come sottolinea il governo, dall’altro però si sono moltiplicate le occasioni di precarietà e impoverite le tutele. Un esempio per tutti: il boom dei voucher, una vera e propria esplosione, visto che dai 36 milioni del 2013 si è passati a 115 milioni nel 2015. Questo perché i buoni per il lavoro a chiamata – una sorta di ticket che retribuisce le singole prestazioni – sono stati liberalizzati e quindi trovano ormai le più svariate applicazioni, soprattutto nel terziario.
Le stesse assunzioni a tempo indeterminato – peraltro senza più l’articolo 18 come deterrente contro il licenziamento ingiustificato – sono state incentivate con sgravi molto generosi: 8000 euro per ogni neo-assunto nel 2015, che però scendono a poco più di 3mila per le imprese che attivano un contratto quest’anno. Molti analisti parlano di un “mercato drogato”: finiti gli incentivi (durano tre anni) si teme che potrebbe seguire una valanga di licenziamenti.
Timore già confermato dai dati Inps di gennaio: il saldo tra attivazioni e cessazioni dei contratti a tempo indeterminato risulta negativo per la prima volta dopo le buone performance dell’anno scorso (-12.378). Oltretutto l’indennizzo dovuto al dipendente in caso di rescissione di un contratto a tutele crescenti è comunque parecchio inferiore rispetto agli sgravi percepiti dall’azienda: la Uil ha calcolato che gli eventuali vantaggi per le imprese variano da 763 euro a 5mila se si manda a casa il lavoratore entro il primo anno, e dai 12 ai 15mila euro se si licenzia dopo 3 anni.
Licenziamenti che comunque continuano a riguardare anche tanti dipendenti di fabbriche “classiche”, quelle del made in Italy.
Spesso a causa della delocalizzazione: marchi coinvolti recentemente in vertenze con centinaia di esuberi sono Saeco e Brioni. La crisi per molte famiglie non è finita, e così lo scorso Natale, mentre tanti di noi stavano al caldo con i propri cari, gli operai delle macchine del caffè erano giorno e notte in presidio, esposti al gelo e alle intemperie, davanti al loro stabilimento. Scene che continuiamo a vedere sempre più spesso.
Se si parla di “made in Italy” non si possono certo dimenticare i tantissimi braccianti – spesso immigrati – che lavorano nelle nostre campagne per la raccolta di pomodori, arance, carciofi, in condizioni bestiali e per pochi euro a giornata. Schiavi di imprenditori senza scrupoli e caporali. Le cronache hanno riportato il caso delle donne violentate a Ragusa dai piccoli proprietari terrieri, mentre l’estate scorsa ben quattro lavoratori hanno perso la vita nei campi. Paola Clemente, bracciante di 49 anni deceduta mentre raccoglieva l’uva in una vigna di Andria, lavorava per soli due euro l’ora.
Il governo ha promesso un giro di vite sui controlli, ha creato una “Rete del lavoro di qualità”, un network a cui possono iscriversi le imprese in regola per ottenere una certificazione da esibire nella vendita al dettaglio. Ma fino a quando, come denuncia la Coldiretti, le arance verranno pagate 7 centesimi al chilo, e i pomodori pachino sui 15-20 centesimi, come si potranno assicurare contratti regolari ai braccianti? Una grossa responsabilità ricade sulla grande distribuzione, che chiede prezzi sempre più bassi, mentre sarebbe da imitare l’iniziativa di una rete di consorzi di acquisto scandinavi: importeranno dal nostro paese solo ortofrutta “etica”, che provenga cioè da una filiera priva di sfruttamento. Per il momento non esiste una certificazione ufficiale: sarebbe ora che fosse istituita per legge.
In questi giorni troviamo in piazza anche i lavoratori dei call center: ben 8mila di loro rischiano il posto, a causa del cambio di appalto in grossi gruppi come Enel e Poste. La ricerca del minimo costo possibile ha reso poco remunerative le loro commesse, estromettendo le imprese che le gestivano.
E se il lavoro privato non sta bene, anche quello statale non è in salute: i contratti di 3,5 milioni di dipendenti – compreso il mondo della scuola – non vengono rinnovati da ben 6 anni. Secondo la Cgil, ciascun lavoratore avrebbe già perso oltre 7mila euro di potere d’acquisto.
(pubblicato su Confronti di aprile 2016)