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Israele-Palestina, 20 anni che sembrano un secolo

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Cinque anni sono trascorsi dall’omicidio di Vittorio Arrigoni, uomo di pace. Una coltre di fumo da parte della politica mainstream sembra essere calata su un pezzo di Medio Oriente se non fosse per alcuni sporadici segnali di attenzione da parte dei media ogni qualvolta si registra un fatto, o un atto grave, quale l’uccisione a sangue freddo di un ragazzo palestinese da parte di un soldato israeliano. Magari rimarcando, come quasi a giustificarne l’esecuzione, un’ipotetica intenzione terrorista della vittima. Un caso che richiama l’attenzione sulle esecuzioni extragiudiziali, pratica sempre più comune: da settembre dello scorso anno sono stati registrati ben 200 casi di esecuzioni sommarie da parte delle forze di sicurezza israeliane.

Da ottobre 2015, 30 sono stati gli israeliani uccisi in circa 300 episodi. La Palestina soffre, e continua a soffrire, e la diplomazia internazionale fatica a rilanciare un’iniziativa concreta di pace, mentre l’iniziativa politica del governo italiano sembra segnare il passo se non risultare inesistente. I dati sono assai allarmanti. Secondo un recentissimo documento di Oxfam International, negli ultimi mesi – nonostante le dichiarazioni di condanna fatte dall’Unione Europea al riguardo – le demolizioni di case palestinesi sono passate da 82 a gennaio 2015 a ben 235 a febbraio 2015 ed hanno avuto effetti su 4659 persone, la metà delle quali bambini. A oggi sono 11.134 le richieste di demolizione ancora non effettuate, mentre procede senza sosta la progressione degli insediamenti, anche a Gerusalemme Est. La ragione è semplice: ottenere permessi per costruire è reso sempre più difficile dalle autorità israeliane e così ai palestinesi non resta altro che costruire illegalmente, in particolare nell’area C della Cisgiordania sotto completo controllo israeliano, come denunciato di recente dall’Israeli Commitee against House Demolitions(ICAHD).

La stessa organizzazione calcola che dall’inizio dell’occupazione nel 1967 siano state distrutte almeno 28mila abitazioni palestinesi. Secondo l’associazione israeliana per i diritti umani B’tselem, lo scopo finale è quello di espellere tutti i palestinesi dalla zona C della Cisgiordania e di fatto annetterla ad Israele.

Come stigmatizzato da Francia e Germania in un loro comunicato di condanna, questo per Israele significa abbandonare del tutto la formula “due Stati per due popoli”. La sistematica aggressione al diritto alla casa rappresenta solo l’aspetto più evidente di una situazione di costante violazione dei diritti umani, come riaffermato dal Consiglio ONU sui diritti umani in una sua Risoluzione del 24 marzo scorso, nella quale si esprime “grave preoccupazione per la continua e sistematica violazione dei diritti umani del popolo palestinese da parte di Israele, potenza occupante”. Per contro, come nel caso di Richard Falk, allora relatore ONU per i diritti umani nei territori occupati, anche il suo successore, l’indonesiano Makarim Wibisono si è visto costretto a rassegnare a gennaio le sue dimissioni vista l’impossibilità di svolgere il suo compito a causa della mancata collaborazione da parte delle autorità israeliane che gli proibirono l’accesso ai territori. A Gaza la situazione resta drammatica a due anni dalla guerra che distrusse o danneggiò seriamente 18mila abitazioni. Di quelle, solo 3mila sono state ricostruite. Secondo quanto reso pubblico nei giorni scorsi dall’ Ufficio di Coordinamento ONU per gli Affari Umanitari (OCHA) , almeno 75mila palestinesi, di cui circa 44mila bambini, sono profughi nella loro stessa terra,Internally Displaced Persons (IDP) nel gergo delle Nazioni Unite.

Nel mentre la diplomazia internazionale sta cercando di riannodare le fila del negoziato. L’11 marzo scorso l’Autorità Nazionale Palestinese ha fatto circolare informalmente una bozza di risoluzione destinata al Consiglio di Sicurezza nella quale si chiede all’ONU di esigere il blocco degli insediamenti a Gerusalemme Est, in Giudea e Samaria, e di impegnarsi in un nuovo sforzo nei negoziati di pace, e fissare la scadenza di un anno entro il quale giungere ad una soluzione di coesistenza pacifica tra Israele e Palestina. Abu Mazen ha incontrato vari capi di Stato e di governo per poi volare al Palazzo di Vetro, dove ha assistito alla cerimonia nella quale per la prima volta è stata issata – fatto storico – la bandiera di Palestina, Stato non membro ma osservatore nelle Nazioni Unite. La reazione di Netanyahu non si è fatta attendere: nessun negoziato multilaterale, solo colloqui bilaterali. Ciononostante nelle scorse settimane la Francia si è incaricata di un’iniziativa di mediazione tra le parti, al fine di riaprire un tavolo di negoziato, lavorando di sponda con l’Egitto e con la Lega Araba. Che l’eventuale fallimento di questo ennesimo tentativo possa poi portare – come dichiarato a suo tempo dall’allora ministro degli Esteri Laurent Fabius – al riconoscimento automatico della Palestina da parte della Francia, è ancora tutto da vedere, vista la querelle che la questione ha sollevato tra Parigi e Tel Aviv, divenuta ormai allergica a simili iniziative nel quadro multilaterale. L’iniziativa francese, che dovrebbe culminare con una conferenza tra le parti a Parigi a luglio, con la partecipazione dei membri del Consiglio di Sicurezza e la Lega Araba, ha ottenuto il sostegno di Giappone e Unione Europea ed è il primo tentativo di riannodare la trattativa dopo la battuta di arresto due anni fa nell’aprile 2014.

L’altro punto “caldo” nelle relazioni tra Israele e Palestina, e riguardante il ruolo della comunità internazionale a sostegno e soccorso dei profughi palestinesi, riguarda la crisi ormai conclamata dell’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East), ormai con le casse a secco dopo il mancato versamento di contributi (per un totale di 101 milioni di dollari) da parte di vari paesi donatori. Una situazione non dovuta al caso, ma ad una sistematica campagna di delegittimazione dell’UNRWA da parte di Israele, volta a minarne la credibilità e l’imparzialità, fino al punto di accusare l’agenzia di connivenza con il terrorismo. Fatto sta che chiudere l’UNRWA, il cui mandato è stato rinnovato dall’ONU fino al 2017, anzitutto significa per Israele conseguire un risultato simbolico non di poco conto. L’agenzia venne infatti istituita in seguito al conflitto arabo-israeliano del 1948, quello che segnò l’inizio della Nakba (“Catastrofe” in arabo): l’esodo forzato, l’espulsione di migliaia e migliaia di palestinesi dalle loro terre, oggi nei campi in Libano, Gaza, Giordania, Cisgiordania e Siria.

Chiuderla significherebbe simbolicamente mettere un punto su un pezzo di storia e su una delle questioni calde nelle relazioni tra Israele e Palestina, ossia il riconoscimento delle responsabilità della Nakba ed il diritto al ritorno. In termini più concreti, la crisi finanziaria dell’UNRWA significa la negazione del diritto dei bambini e bambine palestinesi all’educazione. Si calcola infatti che l’UNRWA gestisca almeno 700 scuole nei campi profughi, impiegando 22mila insegnanti in situazioni di grande sovraffollamento. E non solo: l’UNRWA gestisce anche l’assistenza sanitaria e di recente in Libano la crisi dell’Agenzia aveva portato a considerare la possibilità di addossare ai rifugiati palestinesi parte delle spese per le prestazioni sanitarie erogate. Immediata la protesta dei capi delle organizzazioni dei rifugiati e la risposta dell’UNRWA che si è impegnata a sospendere questo protocollo fino al 21 aprile prossimo. Restano le critiche di gran parte delle organizzazioni palestinesi, che sottolineano come l’interpretazione restrittiva del mandato di protezione dell’UNRWA di fatto le precluda la possibilità di assicurare tutela fisica e legale alle migliaia e migliaia di profughi palestinesi.

Questo quel che succede in Palestina, sulla scia di quella che da più parti viene descritta come “terza Intifada”: ennesimi tentativi di una soluzione negoziale al conflitto e la lenta ed inesorabile avanzata degli insediamenti, del Muro e delle demolizioni di abitazioni palestinesi. Come se ci fossimo assuefatti alla tragedia, nel frattempo la Palestina e il suo popolo scompaiono dal gioco delle strategie e dei posizionamenti tattici degli Stati. Solo attivisti e associazioni per i diritti umani coraggiosamente provano a squarciare con le proprie iniziative di solidarietà, supporto e mobilitazione – quali la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni su Israele) – questa coltre spessa, non certo casuale, che allontana i destini della Palestina dall’agenda della politica internazionale tutta presa ora a contrastare Daesh. Spetta a tutte e tutti noi non permettere che il popolo palestinese diventi un refuso della politica internazionale.

Quanto sia complicato provare a ricostruire la trama di un progetto di pace anche con la società civile israeliana ce lo ricorda in una sua splendida installazione-mostra al MAXXI a Roma sull’assassinio di Rabin, il registra israeliano Amos Gitai, (“Chronicle of an Assassination Foretold” – Cronaca di un Assassinio Annunciato). Egli contrappone – a simboleggiare un dialogo quasi impossibile – le immagini video di due comizi: l’ultimo di Rabin con parole di pace e distensione, e quello di un giovane Bibi Netanyahu che incitava il pubblico contro Rabin, ottenendo dalla folla risposte che invocavano l’uccisione del leader laburista. Sono passati venti anni, che sembrano un secolo.

Fonte: http://m.huffpost.com/it/entry/9689358


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