La centrale di Chernobyl è stata chiusa nel 2000, ma il cuore atomico è ancora attivo, cioè continua a produrre energia. “Non è come spegnere un interruttore” ci ha detto dieci anni fa, per il ventennale, la portavoce, Irina Kovlich: “Prevediamo che ci vorrà ancora un secolo”. La grande paura riguarda il cosiddetto sarcofago, la gigantesca bara di cemento che racchiude il reattore n.4, quello dell’apocalisse. Costruito subito dopo il disastro, si sta sgretolando. Dentro ci sono centinaia di tonnellate di combustibile di grafite sotto forma di massa, tipo lava”, dove non resistono neppure i batteri. I costi per ripararlo, o meglio ancora per costruirne uno nuovo, si sono quadruplicati rispetto alle stime iniziali arrivando ad oltre due miliardi di dollari, una cifra spropositata che ora sta tutta sulle spalle dell’Ucraina, perché non sono mai state mantenute le promesse internazionali. L’area contaminata è enorme, otre 150 mila chilometri quadrati. Ci vivono ancora nove milioni di persone, almeno due milioni sono bambini che, pur essendo nati molto tempo dopo i disastro, sono stati colpiti irrimediabilmente.
Sono stato tre volte a Chernobyl, sfidando il nemico invisibile. La prima volta nel 1991, a soli cinque anni dal disastro. Stavo a Kiev per le elezioni che hanno poi portato al’indipendenza dell’Ucraina. Un operatore della tv locale, Valerij, mi propose il viaggio, ad appena cento chilometri. Capii dopo perché, quando arrivammo a Pripyat, la città fantasma dove vivevano tutti i tecnici e gli operatori della centrale. Entrammo in un appartamento gonfio di radioattività e fra le lacrime mi confidò che quella era la sua casa. Lo chiamarono proprio perché abitava lì per verificare quello che sembrava un normale incidente, come ce n’erano stati altri. La gravità fu nascosta colpevolmente a tutti. L’evacuazione cominciò soltanto due giorni più tardi, dopo l’allarme lanciato dalla Scandinavia, sommersa dalla nuvola radioattiva. Fu una serie di errori a provocare a tragedia. Ce lo confidò Serghei Sarshun, il capoturno di allora: “Arrivarono ordini sbagliati in quella che doveva essere una verifica dela sicurezza. Mi sento colpevole anch’io, ma il più grande delitto è stato di nascondere quello che era successo. La mia famiglia è morta, adesso aspetto di morire anch’io”. Che tipo di errori? “Quella notte esplose una turbina, proprio uguale a quella su cui adesso sta seduto. Interrompemmo l’energia e non dovevamo ubbidire perché violammo una serie di norme rigide, portando a un brusco e incontrollato aumento della potenza (e quindi della temperatura) il nocciolo del reattore n. 4. Si ruppero le tubature e avvenne l’esplosione a cui seguì un incendio, tutto in pochissimi minuti. Ho sensi di colpa che nessuno potrà mai cancellare”. Divisi soltanto da un tramezzo da tonnellate di uranio e plutonio, ci vennero i brividi a vedere sul monitor i reattori numero 1 e numero 3 ancora funzionanti.
Uscendo dalla centrale mi sono sentito allora un sopravvissuto. Ho ancora l’angoscia come fosse successo adesso. Interi villaggi sepolti, la ruota del lunapark ferma, la scuola con le merendine lasciate in fretta sui banchi, ma soprattutto il bosco bianco, morto. Nella vita da cronista mi è capitato di vedere cataste di cadaveri, ma solo a Chernobyl ho visto la morte del mondo. E quel rantolo cupo del mostro in agonia, con tutti quegli operai che ancora lavorano alla centrale, appena un passo oltre la vita, li ricordo come fantasmi. Porto nel cuore Valerij che sicuramente da anni non vive più dopo essere stato molte volte in coma. E’ stato lui a girare quelle immagini storiche dall’elicottero dei vigili del fuoco. Un altro grande eroe del’informazione che nessuno ha celebrato, ma che ha avuto il coraggio di lasciarci un grande testamento.
Uscendo nella notte passammo il controllo. Il contatore geiger ci definì “chisti”, puliti. Ma l‘incubo è rimasto dentro, per sempre, anche a distanza di trent’anni.