Il poeta compie ottant’anni e a sorpresa la sua casa editrice, Empirìa, organizza una festa ristampando l’opera prima che ne decretò la fama e il destino: La chiave di vetro. Un’assoluta novità, in molti sensi. Perché la poesia è sempre nuova, perché la poesia è appartata e schiva anche nei confronti di chi la frequenta, perché la memoria degli italiani è proverbialmente corta e il poema – tale deve essere chiamato – risale agli ultimi anni Sessanta del secolo scorso. Elio Pecora, il poeta, lo aveva composto in Germania, tra Tunzenberg in Baviera e Monaco, quando decise di partire, di allontanarsi dal natio borgo selvaggio, che nel suo caso era Sant’Arsenio in provincia di Salerno. Cambiare clima e scenario, frapporre una distanza di salvezza, favorisce la precipitazione alchemica, cristallizza intorno a invisibili elettroliti la polvere d’oro sospesa nella fluida coscienza; e il poeta si inabissa nel gorgo del proprio essere al mondo, come forse non sarebbe avvenuto tra le pareti domestiche. Nei suoi trent’anni si trova a raccontare semplicemente di sé, del Narciso che si rispecchia in un’immagine acquosa; in superficie affiora l’immagine che riflette un’identità altrimenti sconosciuta e da essa fluisce indispensabile il raccontare, già lirico al suo nascere. Così il poeta parla della madre che lo tiene prigioniero, meglio, alla quale egli stesso si è consegnato prigioniero. Lui le cita a memoria una struggente poesia di Montale, “l’orecchio/ curvo al sospiro materno per tanto figlio e quella/ dice mi prendi i pomodori nel frigo?/ le presi i pomodori”.
Questa di Pecora è più che poesia, è racconto omerico privato dell’epos e della guerra; risiamo forse all’Ulisse di Joyce, a Leopold Bloom, altro “fior d’acqua” vagante nelle vie di Dublino. “Era il Sessantotto, tutti contestavano la società, io andavo a contestare me stesso”, mi sorride Elio al telefono. E da quella condizione si origina un resoconto spudorato, ironico, dolente, ameno e drammatico; la confessione privata che si fa spettacolo e ricorda a tratti 8 ½ di Fellini, le parole al posto delle visioni: “Le cose stanno così. Sono cresciuto in mezzo a gente che, il giorno, mentre cava il fosso per le immondizie, si racconta di reami e di santi. Le favole non mi contentano”.
All’inizio c’è un cenno alla figura di un maestro, il critico che l’ha scoperto, istigato, plasmato (Juan Rodolfo Wilcock), quando giunto a Roma per sbarcare il lunario Elio lavora come commesso alla Libreria Bocca di Piazza di Spagna, crocevia di artisti, scrittori, intellettuali, borghesi ben educati della Capitale; quel che segue è una sorta di tracimante flashback: l’infanzia, l’adolescenza, la prima giovinezza. Ritroviamo le mode dei tempi: “Per giorni respirai yoga sul tappeto,/ conteggiandomi le ossa dei piedi e le curve del colon”. La psicanalisi (troppo costosa) e gli impulsi suicidi: “Mi ripugnavano gli elogi funebri”. Le pulsioni sessuali: “abbagliava con occhi verdi./ mi si poggiava al braccio spossata e dirimpetto sedeva/con la gonna cortissima.” Esca golosa, una sicura carriera all’ombra dei presunti suoceri, “e la casa futura arredata in falso veneziano”.
C’è la festa mobile della Capitale: “A Roma mi ci ero avventurato.” Il compaesano deputato che l’aiuta a trovare lavoro: “Tre mesi dopo un cartoncino mi avvertiva di una sua/ conferenza marxista su fondale cristiano”. Le lunghe ore passate in libreria assieme al collega prediletto: “Bruno e io stavamo guardiani a quella confetteria di cultura.”
Mi freno a fatica, vorrei raccontarlo tutto, il libro, pagina su pagina, troppo ne ho goduto per rinunciare anche a una sola riga. Credo che chi lo prenderà in mano – 15 euro, il costo di un panino vegano ai tempi dell’euro – amerà come me, se soprattutto è romano d’adozione, ritrovare trasfigurato il proprio sentimento. “Di giovedì telefonavo a mia madre”. Versi sfacciati come entrate d’attore, frasi da ascoltare in palcoscenico:“Commendatori e ingegneri compravano Voltaire/accuratamente tarlati e l’ultimo Play Boy.” La sala cinematografica per pellicole impegnate: “in un cinema del centro. Lo frequentavano sarti, attori, una sera un celeberrimo divo americano, e altri./ Vi si proiettavano film d’avanguardia./ (Passim) Giovanotti snelli guardavano lo schermo appoggiati alla parete di fondo. (passim) Al gabinetto l’ininterrotto pellegrinare.”/ Gli intercourse amorosi: “Non m’incontrai mai di sera con Giuliana./ In un mese e mezzo in comune ci svelammo ogni/ disperazione. Portava gonne a pieghe, rossi stivali,/ Bistrava i grandi occhi nocciola./ Nessuno dei due cercava un amore di lacrime.”
Il protagonista narrante rientra a notte fonda nella sua camera, “finché il sonno mi colava dagli occhi”. E guardandosi alla specchio non si riconosce, “Come quando al registratore m’ero accorto/ della mestizia senza fondo della mia voce”. Struggenti le pagine dedicate al paese, alla famiglia: “Ma le vere guerre le combattevo con mia madre”; al padre sempre assente: “Mio padre s’arruolò in Marina/meritandosi i gradi dorati, il rispetto dei paesani,/ una casa con tende e porcellane e la moglie/nata signora.” La scoperta del sesso: “In quel tempo certi compagni m’iniziarono/ a segreti manipolamenti”. E ancora: “Un dopopranzo con una ragazzetta m’accostai/ alla calva ferita del suo pube/ e stetti impietrito.” Il nodo, insolubile, in fondo all’anima: “Fu per me mia madre la misura di tutte le cose./ Malinconie e allegrie sfrenate”. Infine l’epifania della poesia: “Ma di Settembre, un tramonto, in bicicletta per/ il viale di querce coi passeri impazziti nelle foglie/ mi si sciolse un diverso canto.” Il trasferimento a Napoli per gli studi: “ricordo la pena che mi colse/ in una strada, verso il mare, ascoltando dal pianino/ la canzone di una promessa e di un amore finito./ A quel sole, odorando il mare.” E all’improvviso il colpo di pennello. abbagliante: “Per le terrazze arrossavano gerani”. L’improcrastinabile distacco: “La notte tornavo tardi./ Mia madre ai balconi innaffiava le sue piante./ Insonne si rivoltava sul materasso lamentando.” Lo strappo: “Poi le dissi che partivo./ E in ginocchio mi chiese si restare”. La partenza: “Mi comprò le valigie mia madre, due valigie/ di tela verde./ Partii un mattino di luglio./ Non urlò mia madre; la sua pena scorse/ sullo straccio che stringeva nelle inutili mani.” L’estero, la distanza: “Io ricordo per non più ricordare”. Il mestiere della parola: “E rifletto sulla funzione del poeta: il cronista dell’anima”. Questa sì una certezza, afferrata con foga: “Perché io esisto solo nella mia personale invenzione”.
L’esordio, folgorante oggi al pari di ieri, stregò Dario Bellezza, Elsa Morante, Giancarlo Vigorelli. A chi non legge di poesia vorrei suggerire che il canto di Elio Pecora è la strada per scoprirne la seduzione primigenia, assorbirne la sublime necessità, l’energia sotterranea che contiene e che zampilla per ciascuno di noi; ma anche per comprendere che senza poesia non esisterebbe neppure alcuna prosa.
Nella postfazione Roberto Deidier ricorda et pour cause che nel 1970 il libro apparve nella collana dei «Narratori Italiani Contemporanei»; e annota: “Ogni percorso di osservazione dell’io risponde necessariamente a un principio di oggettivazione: Narciso contempla se stesso perché l’acqua ne riflette il sembiante.”