“Chissà chi lo sa?” fu un’altra trasmissione d’annata della Rai, condotta da Febo Conti con la regia di Cino Tortorella (il mago Zurlì). Magari quel simpatico quiz interesserà a Fazio. Tuttavia, la domanda si adatta perfettamente all’azienda di oggi. E sì, perché davvero del doman non c’è certezza. La concessione è stata fortunosamente prorogata fino al 31 ottobre nel Codice degli appalti, ma il tempo corre. Tanto più che i sedici tavoli di riflessione promossi dal governo lo scorso 12 aprile per istruire la procedura della consultazione pubblica hanno elaborato punti e capitoli pur interessanti, tuttavia generici. O, meglio, sarebbero stati una buona premessa, ma un anno fa. Così, la vicenda del canone da pagare con la bolletta della luce sembra stregata, dopo le contestazioni puntuali del consiglio di stato e il conseguente senso di incertezza.
Per arrivare al “Piano Industriale 2016-2018 del Gruppo Rai” approvato il 20 aprile all’unanimità (come mai, visto che non sono mancati i distinguo a mezzo stampa) dal consiglio di amministrazione. Chi l’ha approfondito –è formalmente segreto- riferisce di un tono vago e ambizioso, soprattutto nel linguaggio anglofilo. Si tratta, però, secondo i lettori sia apocalittici sia integrati, di un prolegomeno, piuttosto che di un vero progetto. Del resto, il sottotitolo “Da Broadcaster a Media Company” richiama un dover essere alla moda cui nessuno si sottrae, ivi comprese le emittenti locali nei loro documenti. Un bilancio critico di questi ultimi vent’anni sarebbe il racconto dei racconti: l’essersi l’apparato pubblico ammansito, tagliando alcune importanti espressioni critiche (Michele Santoro e non solo) ed accettando prevalentemente il modello commerciale. Attenzione, ciò non significa affatto escludere la concorrenza con i privati, in primis Mediaset. Il duopolio imperfetto è stato soprattutto omologazione culturale e politica. E’ allarmante, al riguardo, l’affermazione fatta dall’amministratore delegato Campo Dall’Orto a “Il Sole 24 Ore” del 21 scorso sulla funzione “complementare” della rai rispetto al resto, ripresa dal neodirettore di Rai1 Andrea Fabiano in un’altra intervista: “Pronti a sacrificare audience per fare vero servizio pubblico”.
Insomma, una riedizione della linea proclamata nel 1994 dall’allora presidente Letizia Moratti, che fu respinta con perdite. Infatti, tradotta in volgare una simile impostazione significa ridurre il peso reale dell’azienda proprio nell’era della transizione al digitale. Quando il conflitto competitivo è massimo, non minimo. I pensieri cattivi vanno sempre a quel maledetto “patto del Nazareno”, unica spiegazione logica di un andamento altrimenti incomprensibile. Tra l’altro, tutto ciò appare persino grottesco a fronte della cocciuta volontà del governo di varare una leggina votata ad insediare un capo assoluto a viale Mazzini. Assolutismo di incerta efficacia, se è vero che le ultime nomine giornalistiche nella nuova direzione editoriale hanno superato la quota percentuale prevista dal regolamento aziendale sul numero degli “esterni”. Il sindacato giustamente ha protestato. Insomma, al di là della qualità dei singoli, un ulteriore pasticciaccio brutto. La Rai è un marchingegno delicato, un’impresa culturale complessa, irta di brutture eppure ricca di bravi professionisti e di eccellenze. Schiaffi, umiliazioni rimozioni del passato non giovano. Se il piano è segreto, si faccia di necessità virtù. Lo si blocchi e lo si ridiscuta parallelamente al rinnovo della concessione. Le connessioni sono evidenti.