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Il 2 maggio davanti a tre Ambasciate. In Turchia la stretta all’informazione è sempre più pesante

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Il 3 maggio è la giornata mondiale della libertà di stampa. Lunedì Fnsi, l’Usigrai, Articolo 21 – insieme a tutte le associazioni che da tempo si battono per la libertà di informazione nel mondo – faranno, a Roma, una maratona di sit-in sotto le ambasciate per chiedere un cambiamento di passo a paesi come l’Egitto, l’Iran e la Turchia. La Turchia, appunto. Forse il paese in cui la stretta all’informazione, la censura preventiva, l’arresto come minaccia, stanno sempre più prendendo veste e legittimazione istituzionale, approfittando di una Turchia monocolore che vede Recep Tayyip Erdoğan come massima carica dello Stato e il suo partito, l’Akp, governare con la maggioranza assoluta.

In questa Turchia che si avvicina sempre più all’ingresso nell’Ue (il ministro per gli Affari Ue, Volkan Bozkir ha annunciato che proprio lunedì il Parlamento completerà le riforme per l’abolizione dei visti), accade che i reporter finiscano in carcere con l’accusa di spionaggio per aver raccontato verità scomode per lo Stato – quel passaggio di armi dall’intelligence turca (il Mit) ai jihadisti in lotta contro Assad in Siria – così come è successo a Can Dundar ed Erdem Gul, su cui oggi pende una richiesta di ergastolo. Accade che giornalisti come Ceyda Karan e Hikmet Cetinkaya vengano condannati a due anni di carcere con l’accusa di “offesa ai valori religiosi” e “istigazione all’odio” soltanto per aver dato spazio su Cumhuriyet alle vignette di Charlie Hebdo dopo l’attacco alla rivista satirica. Cumhuriyet è il più antico quotidiano di Turchia, una delle poche voci non allineate al governo, uno dei cinque giornali al mondo – l’unico di un paese islamico – a riprodurre alcune caricature pubblicate da Charlie Hebdo in cui il profeta Maometto mostra un cartello con su scritto “Je suis Charlie”, lo slogan con cui in Francia in migliaia scesero in piazza per condannare gli attacchi jiahdisti all’indomani del 7 gennaio. Anche questa condanna è un modo per silenziare una delle poche voci laiche, in un Paese in cui soltanto la scorsa settimana il presidente del Parlamento turco Kahraman ha proposto di eliminare il termine laicità dalla Costituzione. Senza contare cosa è accaduto a marzo alla redazione di Zaman, il quotidiano d’opposizione più letto del Paese, chiuso con l’irruzione della polizia e poi messo sotto amministrazione controllata dal governo.

La condanna a Ceyda Karan – che a gennaio al congresso Usigrai a Roma ha avuto il coraggio di testimoniare quanto sia violenta l’aggressione subita dai giornalisti in Turchia – è l’ennesima intimidazione alla stampa da parte di Erdogan. In un Paese dove per i giornalisti è sempre più difficile persino entrare. Se fino a ieri la morsa del Capo dello Stato era rivolta essenzialmente ai giornalisti interni, ora sono finiti nel mirino anche i quelli europei. Prima la querela di Erdogan nei confronti del comico tedesco Jan Boehmermann (a cui la Merkel h dato il via libera), poi l’arresto della reporter olandese di origine turca, Ebru Umar, fermata per aver offeso Erdogan su Twitter. Al fotografo greco Giorgos Moutafis, diretto in Libia per un servizio per la Bild, è stato negato lo scalo a Istanbul, così come a Volker Schwenk, direttore della redazione del Cairo della televisione tedesca Ard, è stato negato addirittura l’ingresso in Turchia. Ormai i giornalisti indesiderati vengono fermati direttamente in aeroporto. Invece, quel che accade ai reporter in quella terra di nessuno che è il Kurdistan turco, nemmeno si sa: abbiamo assistito a forze di polizia che puntavano la pistola alla testa al cameramen curdo di Ozgur Gun Tv; abbiamo visto una film-maker caricata brutalmente su un blindato solo per avere avuto una telecamera in mano.
E così nessuna voce indipendente racconta quel che accade tra l’esercito turco – nella sua dichiarata guerra al Pkk – e la popolazione curda. Di quelle centinaia di morti tra i civili dopo l’imposizione del coprifuoco da parte del governo (868 civili) da luglio, Rapporto Hdp) – nessuno parla.


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