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I giornalisti uccisi dalla mafia in Italia. Non dimentichiamoli

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Nel nostro amato Paese sono stati uccisi dal 1945 ad oggi, cioè nel settantennio repubblicano, undici giornalisti molti dei quali ho conosciuto da vicino. Sono il siciliano Beppe Alfano, il piemontese Carlo Casalegno, il siciliano Mauro De Mauro, Cosimo Cristina, ancora i siciliani Giuseppe Fava, Mario Francese, Peppino Impastato, Mauro Rostagno, il napoletano Mauro Siani, Giovanni Spampinato e il lombardo Walter Tobagi.

Al Festival internazionale di Perugia che si apre oggi si parlerà di queste vicende e non si possono neppure dimenticare  anche quelli come Ilaria Alpi e Miran Hovratin, uccisi all’estero in circostanze non ancora chiarite.

Dal 1 gennaio 2006 ad oggi l’associazione che tutela i giornalisti in pericolo ,”Ossigeno per l’informazione” presieduta da Alberto Spampinato, ha inserito 2788 nomi di giornalisti, blogger, fotoreporter e video-reporter nell’elenco delle vittime di intimidazioni e di abusi nell’elenco delle vittime contro il lavoro di chi svolge un’attività nell’interesse pubblico e nel rispetto delle leggi che affermano la libertà di espressione e di informazione. Dal primo gennaio 2016 sono stati aggiunti alla tabella 115 nomi. Sono tanti e invisibili e dispersi per paesi e città d’Italia.Tutti hanno il vizio di scrivere e sono finito in un rapporto di 104 pagine firmato da Rosy Bindi,presidente della Commissione e dal vice-presidente relatore Claudio Fava. E Bolzoni su la Repubblica ha scritto:” i giornalisti senza nome sono sempre più soli.  Le mafie studiano ogni loro movimento, analizzano ogni loro cronaca. Un capoverso di troppo può provocare risentimenti, affossare traffico.  Di solito prima arriva un segnale, una “retinata” come si fa con redini che tengono a freno i cavalli. Poi la busta con un proiettile dentro. Poi l’incendio. Poi c’è sempre qualcosa di più. Troppo giornalismo su mafie grandi e piccole non piace. Meglio il silenzio stampa che alle mafie giova da quando mondo è mondo. E la politica dei maggiori partiti in parlamento sta a guardare. In Italia c’è una lunga tradizione di neutralità, o peggio di ostilità, verso chi informa e commenta e affonda le sue radici nella più lunga e profonda storia nazionale”.


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