Si chiama Mahmoud Abu Zeid, ma per tutti è Shawkan. Di mestiere fa il fotografo, è egiziano. La sua colpa è quella di aver documentato quello che è stato definito “il peggiore omicidio di massa della storia moderna dell’Egitto”. Era il 14 agosto 2013, doveva essere una manifestazione della Fratellanza musulmana a Rabaa al-Adawiya, uno dei quartieri del Cairo, e invece si trasformò in una mattanza: intervenne la polizia per lo sgombero e negli scontri furono uccise tra le 600 e le 700 persone. Shawkan era lì per conto dell’agenzia londinese Demotix e fu arrestato insieme a molti altri colleghi. Le accuse sono le più varie: dall’adesione a un’organizzazione criminale all’omicidio, ma soprattutto gli viene contestata “la partecipazione a un raduno a scopo di intimidazione per creare terrore” e il “tentativo di rovesciare il governo”.
Da quel giorno è ancora in carcere in attesa di un giudizio: la prima udienza era prevista due settimane fa ma è stata rimandata perché la cella in cui era rinchiuso, nell’aula di giustizia, era troppo piena. Quel giorno, mille giorni fa. “Mille giorni in una prigione senza aver potuto mai vedere un giudice. Mille giorni in una cella grande come una scatola di cerini. Mille giorni e una notte. Perché impediscono ai miei anziani genitori di vedermi dopo aver fatto un viaggio di quasi un giorno e mezzo per portarmi cose di cui avevo bisogno? Sono solo un giornalista che svolgeva il suo dovere lasciato a marcire in una prigione. Sono innocente e per questo mi rivolgo a voi”. Parole che ha racchiuso in una lettera inviata ad Amnesty international che diventa la base dell’appello lanciato al procuratore generale egiziano Nabil Sadeq, lo stesso che si occupa del caso di Giulio Regeni, e che avrà proprio come primi firmatari Paola e Claudio Regeni. “Hanno firmato – ha detto Riccardo Noury, portavoce di Amnesty – perché la storia di Shawkan è quella di troppi cittadini in Egitto e perché Mahmoud Abu Zeid è un prigioniero di coscienza, in carcere solo per aver esercitato in modo pacifico il diritto alla libertà d’espressione e aver svolto la sua attività professionale”.
“Perché il governo egiziano – scrive ancora Shawkan nella lettera – ha deciso di lasciare in pace i nemici della Fratellanza e dell’Isis per impartire una dura lezione a un giornalista che non ha affiliazione politica se non quella alla sua professione, un giornalista che ha risposto alle richieste del governo di seguire lo sgombero del sit-in di Rabaa al-Adaweya? Mi chiedo: non è abbastanza aver trascorso mille giorni in una detenzione ingiusta?” No, per l’Egitto di oggi forse non sono abbastanza, come è possibile che un ricercatore come Regeni venga massacrato.