La mattina del 26 aprile del 1986 in tutte le università italiane – in quella di Firenze certamente- tutti cercavano di capire cosa era successo in Unione Sovietica durante la notte appena trascorsa. Bollettini inquietanti arrivavano durante la notte dai paesi scandinavi e parlavano di follow up radioattivo pesante fino all’Italia. Dalla facoltà di chimica cercammo per primi i colleghi del Brasimone, per sapere che livello di aumento dei parametri radioattivi si stessero raggiungendo nella zona. All’epoca nel bacino del Brasimone era operativo un centro dell’ENEA con numerosi esperti di nucleare.
Ma neppure loro sapevano spiegare l’impennata dei valori di radioattività che si registravano dalle prime ore della giornata e, come tutti noi, ascoltavano alla radio e alla televisione le prime confuse e frammentarie notizie. Allora chiamammo quella che per tutti noi universitari del ramo scientifico era, come si suol dire, la “cassazione”, cioè il CNUCE (centro universitario per il calcolo elettronico) di Pisa. Loro, lo sapevamo, avevano connessioni internazionali uniche, esclusive. Maneggiavano quella che chiamavamo la “bitnet”.
E infatti, proprio in quei giorni in cui tutta l’attenzione del mondo era, comprensibilmente, sulla tragedia di Chernobyl, che poi capimmo essere il più grande disastro nucleare di tutti i tempi, loro, gli scienziati del CNUCE, stavano attivando un collegamento internet con la Pennsylvania. L’intento iniziale era lo scambio di conoscenza fra strutture universitarie e di ricerca, la possibilità di accelerare l’invio di dati e documenti, il progetto di costruire, effettivamente, una “rete delle reti” per il mondo accademico a livello internazionale. A Pisa ci lavoravano da tempo ma in tutti i dipartimenti scientifici delle università italiane si studiava la questione e ci si preparava al grande salto.
Il 30 aprile il segnale partì davvero, da Pisa verso Roaring Creek. Con il CNUCE, guidato da Stefano Trumpy, lavoravano il CNR, Telespazio e Italcable. Fu usata la rete satellitare Satnet, che era stata usata già dai tempi di Arpanet, il progenitore di internet voluto dalla difesa americana per usi militari fin dai primi anni ’70.
Al CNUCE avevano capito che le grandi macchine di calcolo e i grandi processori potevano cambiare completamente il sistema di invio dei dati. I costi erano altissimi, il CNR stanziò oltre 500 milioni delle vecchie lire e poi ci fu la scelta americana di investire sul gruppo pisano regalando un nuovo hardware che probabilmente non avrebbero potuto permettersi. Perché l’Italia in quel momento era all’avanguardia, negli anni degli albori di internet il quarto nodo europeo, dopo Norvegia, Germania e Inghilterra. L’anno dopo, infatti, al CNUCE fu affidata la gestione del country code “it”.
Trenta anni dopo quel grande traguardo italiano, siamo al quartultimo posto in Europa per utilizzo della rete. Non abbiamo connessione sufficiente, due regioni – il Molise e la Calabria – non sono praticamente connesse, vanno avanti coi modem a velocità paragonabili a quelle degli anni ’90.
Certo, negli atenei è diverso: abbiamo alle spalle tre decenni di esperienza e la palestra dei primi anni, quando si restava a lavoro anche tutta la notte per collegarsi da mezzanotte in poi con i centri di ricerca di quelle parti del mondo dove cominciava la giornata, quando effettivamente dagli Stati Uniti arrivavano aiuti di ogni genere, e si collaborava anche con la NASA, e qui parlo delle mie esperienze personali all’università di Firenze. Quando si cominciava a navigare con “Nexus” e Microsoft ancora non aveva scoperto internet…
Ma oggi perché siamo in fondo alla classifica? Perché i governi, uno dopo l’altro, hanno fatto roboanti annunci e proclami sulla banda larga, sulla banda extralarga, sul cablaggio dell’Italia. Ma dopo gli annunci il nulla. Se cercate “banda larga” sul sito del MISE troverete la situazione fotografata a tre anni fa, senza una riga di aggiornamento. E nessun governo ha investito sulla formazione digitale: lasciate sole le scuole, mai fatte vere campagne di educazione ai nuovi media, tutto lasciato all’improvvisazione. Ma siamo in questa situazione anche perché il duopolio televisivo per anni ha bloccato gli investimenti sulla rete, vedendola come un avversario e non una straordinaria opportunità, e infatti, spiace dirlo, ma ancora adesso la Rai e Mediaset sono irrilevanti sulla rete, sia per quanto riguarda il web sia nella telefonia.
E poi c’è la pigrizia degli italiani, un paese anziano, demotivato, che ha scelto il device che da sempre preferisce: il telefono. Ora si fa tutto con lo smartphone, dove si parla meno e si scrive poco e male, ma ci si scambiano foto e video e si sta sempre connessi. Sarà un caso che le compagnie telefoniche sono le uniche in attivo? Sarà un caso che nelle famiglie italiane non entra in casa un vero computer (lo hanno meno del 50%) ma ci sono almeno quattro telefonini a disposizione?
Forse per sbloccare questa situazione serve uno sforzo congiunto del governo, con i privati, i tecnici e quella che si chiamava società civile, compresa, last but not least, la comunicazione. Ma chi dovrebbe fare educazione digitale e spiegare che usare internet non è solo lanciarsi insulti o fissare appuntamenti sui social? Pensateci, in Italia c’è un’azienda, la Rai, che si definisce servizio pubblico, una grande azienda che potrebbe fare la differenza, come l’ha fatta la BBC in Inghilterra.
Sarebbe il migliore omaggio ai nostri pionieri della rete, sarebbe l’avvio di un percorso virtuoso per far tornare l’Italia al tempo in cui si facevano le cose impossibili, perchè quel tempo c’è stato.