Lo schiaffo di Vienna, la sfida del Brennero, sintesi dei titoli della Stampa e del Corriere. Entro giugno l’Austria intende costruire un muro lungo 350 metri, in prossimità della strada, alla frontiera del Brennero. Inoltre chiede all’Italia di poter controllare, già nel nostro territorio e con suoi militari, i mezzi in transito verso nord. Il governo italiano, indignato, chiede all’Europa sanzioni contro Vienna. Intanto, con estremo ritardo, Renzi decide di difendere la Grecia, di nuovo sotto attacco da parte della UE e del Fondo monetario, perché – come era peraltro evidente – i sacrifici imposti ad Atene hanno finito per aggravarne la crisi. Tsipras chiede un vertice straordinario: l’Italia consente. Intanto il bravo Federico Fubini si chiede, sul Corriere, cosa mai sia venuto a fare Weidmann a casa nostra. Gli rispondo subito: a spiegare che le banche sane – quelle germaniche in testa – trarrebbero vantaggi se il risparmio fosse retribuito meglio di quanto oggi non consenta il quantitative easing di Draghi. Naturalmente, per non aver più bisogno di continue iniezioni di liquidità, gli istituti di credito dovranno sbarazzarsi dei titoli di stato che hanno in pancia. Insomma è venuto ad avvertirci: dopo la Grecia il cappio tornerà a cingere il collo all’Italia troppo indebita e responsabile, secondo il governatore della Bundesbank della malattia dell’Euro. Cavoli amari! Infine ieri a Bengasi simpatizzanti di Haftar, il generale anti Isis e anti Fratelli Musulmani appoggiato dall’Egitto, hanno manifestato contro il governo di Sarraj, appena insediato a Tripoli, e hanno bruciato in strada un bandiera italiana. La Stampa ripesca una sua intervista alla Pinotti del 25 aprile, nella quale la ministra della difesa chiedeva ad Haftar di riconoscere il governo Serraj e affermava che l’Italia era pronta a “garantire la sicurezza dell’Onu a Tripoli”. Direi che a Renzi non ne va più bene una.
Prescrizione lunga, sì della maggioranza, critiche dei giudici. Titola Repubblica. Il Fatto scrive: “Prescrizione, legge truffa”. Come stanno le cose? Pressato dagli scandali – la vicenda del presidente del Pd campano, che incontrava e ringraziava un boss dei casalesi, si sta aggravando – il governo ha fatto pressioni sui suoi alleati di destra perché rinuncino allo stralcio delle misure sulla prescrizione contenute nel ddl sul processo penale in discussione al Senato. É una buona cosa. E se la mediazione con Alfano e D’Ascola, porterà ad un allungamento di 3 anni dei dei processi per corruzione, in modo che diventi un po’ più difficile prescriverli, sarà meglio di niente. Tuttavia si tratta di un compromesso che non risolve. Molte inchieste – spiegava ieri Scarpinato sul Fatto – si fermano perché i termini della prescrizione partono dal momento in cui è stato commesso il reato, mentre le inchieste spesso si aprono anni dopo, per la obiettiva difficoltà di raccogliere le prove o perché la notitia criminis è arrivata con ritardo. Inoltre sarebbe molto meglio fermare del tutto il countdown, dopo una condanna di primo grado. La destra di governo non ne vuol sapere. E le intercettazioni? I giudici temono che il Parlamento dia una delega in bianco al governo. Liana Milella, Repubblica, parla di 1.468.220 processi andati al macero negli ultimi anni. L’accordo sulla prescrizione darebbe più respiro ai processi ma “restano fuori concussione e corruzione per induzione, crimini importanti che non dovrebbero prescriversi mai.”
America first. Sbaragliati gli avversari nell’ultimo super Tuesday, Donald Trump veste i panni del candidato presidente. Spiega che taglierà il welfare e in particolare la spesa sanitaria, e investirà nella potenza degli Stati Uniti. Al tempo stesso pretenderà che gli alleati contribuiscano di più e meglio alle spese militari, critica le guerre di Bush in Iraq e Afganistan, promette di cancellare Daesh e di difendere ovunque gli interessi americani. Un discorso gaglioffo ma “presidenziale”. Ora Clinton dovrà far propria l’agenda di Sanders, se non vuole correre il rischio di perdere a novembre il duello con il miliardario bancarottiere. I commentatori americani o italiani che incautamente hanno bollato col termine “populista” il programma del senatore del Vermont, dovranno farsene una ragione. Da parte sua, Bernie Sanders ieri ha fatto sapere che licenzierà gli uomini dello staff in tutti gli stati meno che in quelli dove si deve ancora votare per le primarie, e fra questi la California. In tal modo Sanders prende atto che non sarà il candidato dei democratici per la Casa Bianca – a meno di infortuni giudiziari di Hillary – ma conferma che vuole presentarsi in luglio, alla Convention democratica di Philadelphia, con quanti più delegati e quanta più forza in modo da poter condizionare, con le sue idee e lo slancio dei millennials, la campagna contro Trump. Chapeau!