Il concetto è chiaro: se la giustizia la applichi a un politico, diventa giustizialismo. Questo è il perverso ragionamento che Renzi ha illustrato ieri al Senato, in lineare continuità con il solco tracciato da Craxi (così fan tutti) e Berlusconi (non mi lasciano lavorare). Questa dichiarazione è scandalosa. E smentisce l’immagine di Renzi, da rottamatore a perseveratore. Peccato. Perché l’Italia ha un bisogno vitale di liberarsi da malaffare e corruzione. La ripresa economica e il funzionamento delle istituzioni presuppongono una rinascita etica collettiva basata sulla legalità cooperativa.
E qui c’è lo scontro tra la corrente ascensionale calda che sale dai tanti cittadini che chiedono onestà e quella fredda che discende dai politici che esigono impunità. Non solo. Molti parlamentari (non tutti) vorrebbero anche un bavaglio all’informazione, che impedisca ai cittadini di venire a conoscenza di fatti penalmente non rilevanti, ma rilevantissimi per stabilire un rapporto di fiducia con chi deve rappresentarli nelle istituzioni.
Una cosa è certa: finché questi politici si agiteranno per sottrarsi all’uguaglianza di fronte alla legge, avremo la certezza che la politica è mal frequentata e priva della forza dell’esempio per risanare il Paese. E le evidenze di questa patologia sono ricorrenti. Basti pensare che Renzi ha avuto la faccia tosta di scagliarsi contro il presunto giustizialismo dei magistrati proprio mentre Verdini – suo alleato e amico – aveva appena ricevuto il sesto – sesto – avviso di garanzia per bancarotta fraudolenta.
No, caro leader, finché c’è la Costituzione, la legge è uguale per tutti.
E non vorrei vivere in un paese dove il governo si compiace di una magistratura ossequiosa del potere.
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