A Brasilia la forza

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Di fronte al colpo di forza che l’opposizione ha sferrato contro la presidente Dilma Rousseff e al tradimento del suo maggior alleato, il centrista Movimento Democratico, il Partito dei Lavoratori, il PT di Lula, ha messo da parte ogni discordia interna e si è mantenuto compatto in difesa del governo. Ma in mancanza di un’iniziativa politica adeguata all’estrema gravità della crisi, non è bastato. Oltre i due terzi dei deputati hanno votato a favore dell’impeachment che ora è all’esame del Senato. E’ il passaggio decisivo.

Se l’eccezionale procedimento otterrà l’approvazione anche alla Camera alta, dove in prima istanza avrà bisogno della maggioranza semplice (41 voti su 81), entro un paio di settimane Dilma verrà sospesa dai suoi poteri per un massimo di 180 giorni. Nel corso di questo periodo, il Senato, alla cui guida interverrà il presidente del Tribunale Supremo Federale (STF), dove concludere l’istruttoria, ricevere la difesa della presidente Rousseff ed esprimere una sentenza. Per ratificare la quale sarà richiesta la maggioranza dei 2/3 dell’Assemblea, ovvero l’approvazione di almeno 54 senatori.

Dilma dichiara e argomenta che si tratta di un golpe, sebbene -stavolta- non sia stato portato in strada nessun carrarmato. Ed è vero che l’accusa di aver truccato il bilancio dello stato per nasconderne il grave deficit, una vera débacle per l’economia del paese, non costituisce un atto giuridicamente sufficiente a giustificare un’iniziativa che pone a rischio la Costituzione. Ma in politica l’aspetto giuridico-formale delle questioni per quanto ovviamente molto rilevante, non sempre risulta decisivo.

In questo caso sembra finora prevalere il discredito del governo presso gran parte dell’opinione pubblica, provocato dalla crisi economica che ha amplificato lo scandalo della corruzione politica all’interno del Congresso. A introdurla e farne un efficacissimo strumento di potere per decenni, non sono stati certamente nè Lula, né -ancor meno- Dilma. La corruzione in Brasile viene di molto più lontano. Ma nessuno dei due ha saputo opporvisi, al contrario: entrambi l’hanno subita. E ora la destra conservatrice, incriminata ben più della Presidente, con abile cinismo la strumentalizza per farsene scudo e sconfiggerli.

 

ALL’AVANA L’ INERZIA

Raul Castro l’ha detto: ”Evitiamo precipitazioni e improvvisazioni che ci condurrebbero al fallimento…”. Con queste parole rassegnate il Segretario Generale ha aperto (e chiuso) il settimo Congresso del partito comunista di Cuba, che avrebbe dovuto indicare la via da percorrere per realizzare i cambiamenti necessari e urgenti impliciti nella ripresa dei rapporti con gli Stati Uniti. Poiché il reinserimento dell’isola nei commerci internazionali non è stato certo un imprevisto, era ragionevole aspettarsi che il castrismo vi fosse preparato, con progetti e quadri dirigenti adeguati. Anche per ostacolare eventuali ripensamenti a Washington.
Non sembra che così sia. Il piano di sviluppo economico-sociale 2016-2030 raccomanda una particolare attenzione agli aspetti contabili della gestione di bilancio. Cioè un ulteriore sforzo di risparmio. E l’aggiornamento professionale della mano d’opera industriale. Prevede una concentrazione degli investimenti nazionali nell’agro-industria, nella ricerca scientifica e nelle nuove tecnologie, nella difesa del medio-ambiente e delle risorse idrauliche. Ordina la canalizzazione degli investimenti esteri diretti verso i settori dell’industria ad alta tecnologia e al turismo.

Non dice però attraverso quali meccanismi. E i tempi di applicazione delle norme legislative cubane sono notoriamente lenti. Un’indicazione concreta della volontà rinnovatrice del partito era dunque attesa dall’eventuale introduzione di nuovi dirigenti nel suo organismo di vertice, l’Ufficio Politico. Ma non ne sono state annunciate. Raul, 84 anni, prevede le sue dimissioni per il 2018. Il suo vice, José Machado Ventura, ne ha 85. Bisogna passare al terzo degli anziani, Miguel Diaz Canal, 56, per trovare un dirigente di vertice al di sotto dei 70, l’età massima stabilita dal Congresso precedente.

Tuttavia né l’età, né la sua attuale gerarchia garantiscono nulla. Già nel passato più o meno recente sono scomparsi dalla scena personaggi accreditatissimi. Carlos Lage e Carlos Aldana, in un momento entrambi vice di Raul, sono stati riassorbiti dal gruppone del Comitato Centrale. Del fedele segretario di Fidel, Carlos Valenciaga, non si sa più nulla. Né il giovane e brillante ex ministro degli Esteri, Felipe Perez Roque, né l’ex presidente del Parlamento, Roberto Robaina, né il suo collega Ricardo Alarcon ricoprono più incarichi di rilievo.

Questa ratifica dell’ immobilismo ha suscitato qualche sorpresa anche all’Avana. Qualche voce la spiega con l’ormai imminente cambio della guardia alla Casa Bianca. Se da un’ipotetica presidenza Trump ci si aspetta il peggio in una qualche versione oggi imprevedibile, la non remota possibilità di doversela vedere invece con Hillary Clinton non tranquillizza nessuno. Accolto da un’interminabile standing-ovation alla sessione conclusiva del Congresso, Fidel avrebbe raccomandato di tenersi le mani libere. Certo è che Bruno Rodriguez, attuale ministro degli Esteri e membro dell’Ufficio Politico, ha immediatamente attaccato Obama con aspre critiche.


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