Dopo aver frantumato la Libia, la sempre più probabile nuova guerra potrà essere decisa da un Parlamento che rappresenta una minoranza d’italiani.
Si legge che alle prime elezioni politiche (1861) aveva diritto al voto l’1,9 per cento della popolazione (purché maschi e ricchi), e che appena lo 0,9 per cento lo avesse esercitato, sicché ogni votante di fatto rappresentò 100 italiani. Erano 26 milioni, allora. Il Parlamento che ne uscì era formato da principi (ben 85!), duchi, marchesi, ufficiali, professori universitari. Soltanto nel 1882 entrò in Parlamento un operaio. Era Antonio Maffi, un tipografo milanese che amava il socialismo e la cooperazione. Gradualmente gli aventi diritto sono aumentati: dal 1913 il voto fu esteso all’intera popolazione maschile, dal 1946 all’intera popolazione italiana. Teresa Mattei festeggiò con la mimosa il voto esteso alle donne. Sconfitto il fascismo, nata la Repubblica, alla cabina elettorale si avvicinò la quasi totalità di chi ne aveva diritto. C’è chi ha provato fastidio per tale esercizio democratico spingendosi a dire che, sì, erano molti a recarsi al voto, ma questo afflato democratico, in realtà, era un retaggio totalitario del regime fascista. Dunque, votare numerosi sarebbe, in fin dei conti, pre-moderno se non addirittura un po’ autoritario. Sarà per questo che l’ultima volta che si è votato in Emilia-Romagna, è passato con un’irriverente alzata di spalle il non voto di oltre il 60% degli elettori. Quasi fosse un segnale della modernità. Non un rifiuto della democrazia, ma un disincanto rispetto a essa; non la conseguenza dell’intreccio fra crisi economica, crisi dei partiti, crisi del sistema politico, ma una raggiunta maturità di una democrazia moderna; non un pericoloso frutto dell’estraneità alla politica e dell’indifferenza, ma un allineamento alle grandi democrazie del Nord e dell’Ovest. Insomma un riflesso della stabilità del sistema. E forse sarà stato per questo che il Governo Renzi ha snobbato un emendamento alla riforma costituzionale – quella che sarà sottoposta a referendum nel prossimo autunno – in risposta a questa patologia della democrazia. L’emendamento attiene a un fatto di estrema gravità, per ora solo alle nostre porte, ma di cui vediamo il portato di sofferenze sotto lo sguardo di un’insipiente Europa, nei volti delle migliaia di disperati in fuga da guerre che approdano a terre inospitali spesso colpevoli per quelle sofferenze. La Costituzione, infatti, prevede un ruolo centrale del Parlamento per la deliberazione dello stato di guerra. A maggioranza semplice perché esso, nel suo spirito originario, rappresentava gli italiani e per il sistema di voto proporzionale (una testa, un voto) e per l’alto numero dei votanti. Dunque, il voto della maggioranza del Parlamento sarebbe corrisposto alla volontà della maggioranza degli italiani. Oggi il combinato fra la nuova legge elettorale, che assegna la maggioranza dei parlamentari al partito che prende più voti, e il fatto che si reca al voto una minoranza d’italiani, fa sì che la delibera di un eventuale stato di guerra potrà essere assunta da una ristretta minoranza, circa il 20%, se si ripeteranno le percentuali di voto dell’ultima tornata elettorale. L’emendamento prevedeva, nel rispetto del dettato costituzionale, che tale delibera fosse approvata non più a maggioranza semplice, ma dai due terzi del Parlamento. Emendamento ignorato. Per cui, dopo aver frantumato la Libia al seguito della Nato e degli Usa, recalcitrante Berlusconi (era la prima volta che la vedeva giusta), la sempre più probabile nuova guerra (non si chiamerà così per aggirare l’articolo 11 della Costituzione, ma intanto Renzi già autorizza “caso per caso” la partenza di droni armati Usa da Sigonella, mentre lo storico Del Boca dice che se ci dev’essere una guerra, quella va fatta dai libici non da noi) potrà essere decisa da un Parlamento il quale, ancorché non espressione della nuova legge, rappresenta comunque una minoranza d’italiani visto il sistema elettorale maggioritario (la Calderoli) che ne è stato alla base. Alla faccia della Costituzione e della democrazia. E della logica, perché c’è una domanda alla quale si dovrà pur rispondere: è mai possibile che l’attuale Parlamento eletto in base ad una legge elettorale che una sentenza della Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima, possa approvare leggi che modificano la Costituzione?