La campagna social di “Suffragette” sembra studiata apposta per l’8 marzo e per ilsettantennale del primo voto delle donne in Italia, nel 1946. Pezzo forte la t-shirt bianca con la scritta “Never surrender, never give up the fight” (in italiano “Mai arrendersi , mai smettere di lottare”), slogan con cui la leader dell’ala armata delle suffragette inglesi, Emmeline Pankhurst, arringava all’inizio del secolo scorso le sue combattive discepole.
Diciamo che il lancio pubblicitario è ben calcolato in un Paese che ancora nel 1945 escludeva le donne della Resistenza dalle sfilate dei partigiani per la Liberazione. A mia madre, staffetta, in casa proibirono l’iscrizione ufficiale all’ANPI, l’associazione degli ex partigiani, perché “senno,chi ti si sposa?”. E tra i supposti progressisti del Pci Togliatti dovette inventarsi più tardi le commissioni femminili per spezzare la segregazione delle donne nel ruolo di dattilografe.
Stiamo parlando di storia vicina, e di strada da fare per rompere il famoso ‘soffitto di vetro’ da noi da fare ce n’è ancora tanta, perfino la Spagna sulla parità salariale e sulla percentuale di donne in attività ci ha superato da un pezzo.
Va bene quindi il film rigorosamente “al femminile” che la britannica Sarah Gavron ha dedicato agli oscuri prodromi del suffragismo inglese alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Va bene a condizione di non aspettarsi, oltre a un film militante, anche un bel film. Il suo atout sono i nomi: Carey Mulligan, Helena Bonham Carter, Meryl Streep che appare per pochi magnetici istanti. Ma il racconto è ‘telefonato’, per dirla in gergo cinefilo. Nella Londra del 1912 l’operaia Mulligan, schiavizzata in una lavanderia a gestione industriale, prende coscienza e aderisce alla WSPU di Emmeline Pankhurst, l’avanguardia radicale del suffragismo, che predica “azioni, non parole”. Le azioni dimostrative di strada sono da black block ante litteram: vetrine sfasciate, attentati dinamitardi (senza vittime), vandalismo. La repressione poliziesca è feroce, la detenzione brutale, contro le attiviste che organizzano uno sciopero della fame. Ma a pagare i prezzi più pesanti, cacciate di casa, rinnegate dai mariti, private dei figli, sono le proletarie. È la specificità del suffragismo britannico: non solo avanguardie ‘colte’ ma popolane martirizzate dallo sfruttamento, dagli abusi sessuali del padrone, da rischi altissimi sul lavoro. La ricostruzione non farebbe una piega se l’attivista disoccupata e senza fissa dimora non sfoggiasse cappellini stilosi e mani senza tracce di dolorosissima usura.
Il racconto del film si chiude con il primo vero martirio di quella storica lotta. Al Derby di Epsom, il 4 giugno 1913, re Giorgio V assiste dalla tribuna alla morte di Emily Wilding Davison, travolta dalle zampe del suo cavallo Anmer mentre tenta di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle rivendicazioni della WSPU. L’obiettivo è drammaticamente raggiunto: i filmati originali dell’epoca mostrano una folla immensa, quattro giorni dopo, al passaggio della bara di Emily.
La regista ne approfitta per ripassare le tappe della lunga marcia per il diritto di voto alle donne nel mondo: pioniera la Nuova Zelanda, nel 1893, buona ultima l’Arabia Saudita nel 2015. Le ‘suffragette’ inglesi, che avevano fatto proprio il nomignolo spregiativo affibbiato loro dai detrattori, conquistarono il primo parziale accesso alle urne nel 1918, dopo che la guerra, assai più del loro movimento, aveva assegnato alle donne un nuovo ruolo nella società e nell’economia.
Se un film non riesce a emozionarti, che almeno ti insegni qualcosa. Se scopri che un diritto è stato duramente conquistato, capisci che puoi anche perderlo, e impari a difenderlo. In questi giorni esce per Frassinelli un intrigante romanzo di Maria Rosa Cutrufelli su questa materia, “Il giudice delle donne“. È ispirato alla vera storia di dieci maestre italiane che nelle Marche del 1906 rivendicarono ‘scandalosamente’ l’iscrizione alle liste elettorali, puntualmente sconfitte “con biasimo”. È che le donne combattenti, le pioniere, le antesignane, hanno sempre dato fastidio, nell’Inghilterra edoardiana come nell’Italia della Liberazione, sempre e comunque nella Storia scritta. Per esiliarle dalla memoria le hanno dipinte di volta in volta isteriche e mascoline, racchie e invasate, zitelle o puttane. Risarcirle di questa presenza negata non è femminismo, è un semplice atto di civiltà.