Stragi a Bruxelles. E’ ora che gli islamici belgi si ribellino al fondamentalismo

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Bruxelles è la capitale islamica d’Europa. E’ da decenni la sede logistica per la rete degli attentatori e per lo smistamento degli imam salafiti nel resto del continente. E’ il centro di reclutamento e di finanziamento delle “cellule dormienti” e dei “lupi solitari”.

Sono anni che i dati statistici documentano che nell’area francofona della capitale, enclave della regione fiamminga, il 30% circa della popolazione su un milione e 200 mila abitanti è arabo-islamica: tra i 250 mila e i 350 mila, in maggioranza di origine marocchina (70%) e turca (20%). Quasi tutti hanno utilizzato le leggi che favoriscono la riunificazione familiare, facendo arrivare mogli e figli. Per quanto riguarda i celibi, oltre il 60% dei giovani marocchini e turchi si sposano esclusivamente con persone della loro stessa origine. Un’ottantina tra moschee e minareti, Bruxelles è anche la capitale europea per la presenza massiccia di donne velate, frequenti in burqa o in niqab. E’ qui che si svolgono le manifestazioni più numerose e anche violente a favore dei palestinesi, quando Israele attacca per ritorsione i territori occupati dagli integralisti di Hamas. Una nota di “colore” è il record raggiunto dal 2008 dei nomi dei neonati di qualsiasi religione: il più diffuso è Mohammed. Secondo alcune fonti, opererebbero 200 organizzazioni di assistenza e indottrinamento, per lo più rifacentesi al fondamentalismo salafita, oggi ritenuto il più violento e predominante tra gli adepti dell’ISIS.

La generosa politica di accoglienza e l’inclusività del welfare ha incrementato l’arrivo degli islamici arabi a Bruxelles. Arrivano prima i maschi celibi o da poco ammogliati, che si rifugiano nei quartieri a preponderanza islamica e vengono subito edotti sul sistema di assistenza belga, permettendo così di usufruire per molti anni dello “chomage”, il sussidio di disoccupazione, sui 600/800 euro nette al mese, compresa la sanità quasi gratuita. Molti si danno al lavoro nero (anche se vietato per chi si trova in “chomage”) per incrementare lo “stipendio sociale”. A Bruxelles, che ultimamente i media hanno ribattezzato la capitale del Belgistan, sono quasi del tutto intrivabili le normali macellerie, mentre pullulano quelle “Halal” secondo la macellazione tradizionale araba. Le pescherie sono in mano a marocchini e algerini, i negozi di alimentari-frutta e verdura al dettaglio sono quasi tutti gestiti da arabi. Sono scomparse le boulangeries e il pane è di fattezze turche (per quello tradizionale belga ci si deve rivolgere ai supermercati). Solo i mercati rionali settimanali custodiscono ancora cibi e bevande di tradizione belga, francese e fiamminga.

Dal 2007, uno dei maggiori sociologi e storici, come Walter Laqueur (ebreo polacco, emigrato in Israele per sfuggire alle persecuzioni naziste e poi trasferitosi definitivamente negli Stati Uniti), in base a ricerche e dati statistici, metteva sull’avviso l’opinione pubblica dei rischi della presenza massiccia e in continua espansione degli islamici nell’Unione Europea in due libri dal titolo profetico: “Gli ultimi giorni dell’Europa / Epitaffio per un vecchio continente” e “Dopo la caduta: la fine del Sogno europeo e il Declino di un continente”. L’autorevole istituto di indagini e ricerche sociologiche e demografiche Pew Reaserch Center di Washington aveva a sua volta analizzato il fenomeno dell’islamizzazione dell’Unione Europea e fatto delle stime allarmanti sull’esplosione sia demografica sia sull’arrivo massiccio di emigranti: in Europa la popolazione musulmana aumenterà di un terzo entro il 2030, passando da 44,1 milioni di abitanti (6%) a 58,2 milioni (8%). Alcuni stati vedranno gli islamici raggiungere una percentuale a due cifre come il Belgio, la cui popolazione musulmana passerà dal 6% al 10,2% e la Francia, che raggiungerà il 10,3%, contro il 7,5% di oggi. In Svezia i musulmani aumenteranno al 10% rispetto al 5% di oggi. In Gran Bretagna raggiungeranno l’8,2% della popolazione (il 4,6% oggi) e in Austria il 9,3% contro il 6%.

Su un nostro blog del 20 gennaio scorso mettevamo in guardia dall’affrontare il problema con gli occhi e i comportamenti dettati dal “politically correct”, in quanto così si alimentava lo “scontro di civiltà”, anziché diminuirne l’estensione e scaraventarci inesorabilmente verso una “guerra spezzettata” su più fronti: quello interno, in Europa, e quello al di là del Mediterraneo, tra Siria, Turchia curda, Iraq e Maghreb, Libia compresa. Non sono in discussione concetti come accoglienza, inclusione, generosità, scambio culturale. In discussione è l’arrendevolezza nella difesa dei nostri valori, dei nostri stili di vita in nome di un “melting pot”, di un concetto di globalizzazione acriticamente solo positiva e innovativa.

Dopo l’accordo per le frontiere aperte di Schengen, nulla è stato fatto per creare un coordinamento di forze, di intelligence e di scambi di comunicazioni tra le diverse polizie, per arginare il terrorismo fondamentalista. Sono state lasciate sole nella loro attività di intelligence e repressione Francia, Belgio e Italia, i tre maggiori obiettivi dei terroristi. Abbiamo un’esperienza quarantennale di lotta al terrorismo e di interposizione alla piovra mafiosa, anche con l’uso coordinato di reparti dell’esercito. Purtroppo, quello che è mancato di più a Parigi e a Bruxelles è stata proprio la protezione diffusa del territorio.

Durante e dopo l’arresto della “primula nera” Salah Abdeslam, le forze dell’ordine belghe sono state fatte oggetto di rimostranze e contestazioni plateali da parte degli abitanti arabi di Moellebeck, sintomo dell’odio antieuropeo e della frustrazione sociale e religiosa che lì vi albergano. Ma è stato anche un fenomeno di lotta “resistenziale” contro le “forze di occupazione”, come se si fosse in un territorio occupato palestinese.
La strategia di interposizione, insegna che subito dopo le prime sparatorie dei giorni passati, il governo belga avrebbe dovuto far intervenire reparti scelti dell’esercito per un’opera di “controllo del territorio” e di una vasta operazione di perquisizioni. Questa mossa di “deterrenza” avrebbe potuto da una parte far venire allo scoperto, eventualmente con conflitti a fuoco, le cellule fondamentaliste; dall’altra, avrebbe potuto indurre quegli abitanti non “indottrinati” a ribellarsi e, sentendosi più sicuri e rafforzati dalla presenza dello stato “manu militari”, a denunciare le connivenze, indicare persone e luoghi sospetti.

Occorre un’opera di dissuasione presso la popolazione islamica e anche di persuasione affinché escano allo scoperto, si ribellino allo stato di soggezione e di falsa identità comune da “nazione panaraba”, per tutelare le origini, i costumi e la fede in Maometto. Non basta più che alcuni rappresentanti religiosi e civili delle loro comunità partecipino alle rituali manifestazioni di solidarietà e alle onoranze funebri.

L’Occidente, gli stati europei, devono affrontare questa emergenza con tutti i mezzi di intelligence e di polizia, senza sconfinare nella repressione selvaggia. E difendendo i nostri valori secolari, senza paura di sentirsi definire “neocolonialisti” o “razzisti”. Ma le comunità islamiche devono, da parte loro, anche “liberarsi da sole”: scendendo in piazza, magari togliendosi i veli; manifestando contro i loro stessi “cattivi maestri” e gli imam ultraortodossi; facendo “terra bruciata” ai terroristi nei loro stessi quartieri; non respingendo un’integrazione che in alcuni settori della borghesia e dell’intellighenzia arabe già si va facendo strada. Ne va della nostra esistenza pacifica di Europei (cristiani, ebrei e islamici). Altrimenti, ci si avviterà nel tunnel dello scontro militare fine a se stesso, foriero di fantasmi del passato razzista, antisemita, reazionario, dittatoriale e oscurantista: la fine stessa del grande sogno di un continente libero e inclusivo come l’Unione Europea.


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