Riprende questa settimana davanti alla Corte d’Assise di Latina il processo a carico di tre “mammane” moderne accusate di aver costretto una giovanissima prostituta ad assumere pillole abortive quando la gravidanza era già alla ventiduesima settimana. L’effetto è stata la nascita di una bambina viva, chiamata Maria e sopravvissuta solo poche ore. E così nel momento esatto in cui il dibatto sull’uso del corpo delle donne ha raggiunto il suo apice una storia medioevale dentro l’aula di un Tribunale di provincia costringe a guardare in faccia cosa succede ancora adesso alle donne schiave, senza che nessuno se ne preoccupi perché in questo procedimento non ci sono parti civili e lo Stato, da solo, tramite un pm cerca di dimostrare l’omicidio di una bimba avvenuto con metodi violenti e privi di scrupolo in danno di una ragazzina che dopo il parto si è sentita male, è stata accompagnata in ospedale dalle stesse persone che l’avevano costretta ad assumere le pasticche e che ai sanitari hanno falsamente riferito che era una loro familiare.
Hamina è il nome di quella ragazza rumena, arrivata in Italia a poco più di 15 anni, dopo essere stata venduta al suo aguzzino, l’uomo che l’avrebbe costretta a prostituirsi e a prendere le pillole abortive. Il processo per l’omicidio della bimba è uno stralcio di altro procedimento per sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù e negli atti di entrambi ci sono le dichiarazioni rese da Hamina nel corso dell’incidente probatorio che si è tenuto davanti al gip di Roma prima che la ragazza sparisse nel nulla. Quel racconto messo a verbale dal gip rappresenta probabilmente una delle poche prove giudiziarie circa l’esistenza di una tratta di giovani donne dalla Romania all’Italia e dello sfruttamento del loro corpo, della riduzione in schiavitù e della loro compravendita, fino all’annullamento di qualunque forma di volontà, sinanche quella di decidere se tenere un figlio. Hamina riferì di essere andata via di casa a poco più di 14 anni per vivere con il suo ragazzo e che questi poco dopo “l’ha data” (in gergo locale l’aveva ceduta) ad un altro uomo che poi l’aveva portata in Italia e una volta qui era stata costretta a vivere con le sorelle e la moglie di lui, le “mammane” appunto, le tre imputate che adesso rispondono di omicidio volontario e violazione della legge 194. A domanda del gip Hamina ha risposto che la cessione delle ragazze era una sorta di prassi nella sua città (Craiova), “un’usanza… che capita…”, dice testualmente in atti del processo.
E ha aggiunto che nessuna delle ragazze si ribella “per paura”. La stessa paura che l’ha indotta ad assumere le pasticche abortive. Risulta infatti dal capo di imputazione che le tre donne che hanno procurato le pillole “del giorno dopo” indussero la giovane a prendere i farmaci interruttivi della gravidanza causando così la reale interruzione in violazione della legge e dunque la morte della bimba. Fatti poi sostanzialmente negati ai medici dell’ospedale di Latina, ai quali fu fornita una versione diversa, ossia che la ragazza (minorenne all’epoca dei fatti) aveva preso le pillole in modo autonomo e che solo dopo i familiari si sarebbero accorti dell’avvenuto aborto, anzi del parto della bambina di 22 settimane. La sentenza a carico delle mammane dovrebbe essere pronunciata entro la prossima estate e servirà a stabilire chi ha ucciso Maria ma purtroppo non aiuterà a ricostruire il percorso obbligato della madre-schiava che nel frattempo è fuggita chissà dove e non è neppure presente in aula. Ciò che stupisce però è il silenzio che questa storia si porta dietro: non c’è scandalo per il procurato aborto, non per la morte della bimba, non per la riduzione in schiavitù della madre, non per la compravendita, né per il fatto che questo potrebbe essere uno dei tanti casi esistenti e ignoti perché non finiscono negli atti di un processo penale.