L’allestimento è imponente e teatraleggiante. All’apice dello scalone d’onore delle Scuderie del Quirinale due tele immense, affiancate, due portelle d’organo alte quasi sei metri e larghe tre accolgono il visitatore come sgargianti quinte di proscenio: ritraggono il Re David e la Santa Cecilia dipinte da Parmigianino per Santa Maria della Steccata a Parma. Superata quella soglia simbolica si piomba in un buio denso, rischiarato a macchie dagli aloni di luce che i led proiettano come ‘occhi di bue’ sui protagonisti della rappresentazione. La suggestione è avvolgente, l’oscurità facilita lo smargina mento in una dimensione semionirica di cui Correggio e Parmigianino sono veri illusionisti. Le figure appaiono affiorare da un mondo a parte, sfumate, delicatissime, eleganti: donne dai colli lunghi, dalle dita affusolate, curatissime, forme e incarnati di lampante sensualità, anche per gli uomini e i ragazzi. E non fanno eccezione gli animali: nella “Conversione di Saul” il cavallo sembra una ballerina del varietà, tanto i suoi muscoli sono lucidi e sinuosi, l’atteggiamento regale e indispettito.
Di fronte abbiamo la realtà come si trasfigura filtrata dal desiderio. Elisabetta Fadda, nel più bel saggio in catalogo, definisce ‘scabroso’ “Amore che fabbrica l’arco” commissionato a Francesco Mazzola (così si chiamava il Parmigianino) dal cavalier Francesco Baiardi. Come avvertono opportunamente i pannelli della mostra, se ancora qualcuno è convinto che la pittura del Cinquecento coincida esclusivamente con Roma, Firenze e Venezia, dovrà ricredersi assistendo ai virtuosismi di questi due artisti del Gran Ducato (Correggio, da cui prende nome Antonio Allegri, è a un passo dal capoluogo) i quali in un pugno di anni hanno creato opere capaci di influenzare potentemente il barocco del secolo successivo, e non solo in Italia ma in tutta Europa, dando vita a una scuola fertile di talenti: Michelangelo Anselmi, Giorgio Gandini del Grano, Francesco Maria Rondani, e su tutti Girolamo Mazzola Bedoli, successore principe del Parmigianino, quasi un clone.
Nessuno oggi parlerebbe di Parma se non fossero esistiti Correggio e Parmigianino, il primo mettendo mano agli affreschi del Monastero benedettino San Giovanni Evangelista e della cupola del Duomo, il secondo soprattutto a quelli della Steccata, con alcuni scambi di cortesie non certo fortuiti. Uniti dalla dovizia di una produzione generosissima con cui soddisfare i committenti delle corti limitrofe (molto vicina era Mantova dove aveva giganteggiato Andrea Mantegna, e il raffaellesco Giulio Romano si ingegnava a sollevar scandalo con soggetti carnali assai espliciti; una tentazione a cui non si sottrassero neppure i due prodigiosi pittori di quel gaudente angolo di Francia, affrontando con esuberante lascivia i miti del mondo classico.
A Roma nel giugno del 2008 alla Galleria Borghese, era stato presentato Correggio e l’antico, per suggerire (se non dimostrare) il passaggio dell’Allegri a Roma; e in quella occasione era stato possibile ammirare tra i suoi soggetti più appassionanti, anche gli Amori di Giove: la Danae, naturalmente, che viene denudata con mano lesta da Cupido ruffianello perché il Padre degli Dei possa goderne tramutato in pioggia d’oro; e poi Il ratto di Ganimede, Leda e il cigno, Giove e Io. Un trionfo di pulsioni. A cui si rivolgeva goloso Federico Gonzaga, che quei soggetti avrebbe desiderato per le sue alcove: donne e fanciulli – non badiamo ai dettagli! – sorpresi in inequivocabili rapimenti.
Se sul Correggio aleggia nondimeno il dubbio, per Parmigianino c’è invece assoluta certezza del suo passaggio nella Città Eterna, scortato dallo zio Pierilario, fratello del padre Filippo, pittore non corrivo a capo di una fiorente bottega. Francesco aveva iniziato a dipingere giovanissimo, tanto che il primo quadro, “Il battesimo di Cristo”, risale ai suoi sedici anni e forse quattordici. E a Roma giunge nel 1524, quando di anni ne aveva ventuno, sotto il gran papato di Clemente VII allietato da una concentrazione esagerata di geni artistici. Di Giulio Romano, già in partenza per Mantova, riesce ad ammirare i “16 modi”, vale a dire le posizioni dell’amore illustrate con mano sapiente e spregiudicata, perfetta antifona ai sonetti ancora più sconci di Pietro Aretino, freschi di stampa. La città gaudente contava al tempo trentamila prostitute. Una di esse di nome Antea – pseudonimo classicizzante assai diffuso – viene dipinta dal Parmigianino a figura quasi intera, lussuosamente abbigliata, una martora pendente dalla spalla, due perle oblunghe ai lobi delle orecchie, la bruna capigliatura separata al centro e fermata da un monile. Il giovanotto se n’era innamorato? Chissà: è anche possibile che Antea non fosse affatto una di quelle, il viso non lo farebbe pensare; mentre non sussistono troppi dubbi su la “Schiava Turca”, altro nome di battaglia delle allegre donnine, dal colorito roseo acceso e un vistoso tubante in testa. Sono ritratti di alta maestria e di tecnica sublime, che inducono le cronache a parlare del giovane artista come di un “Raffaello redivivo”. Prova ne sia il ritratto, assolutamente superbo, di Galeazzo Sanvitale, così dichiaratamente in competizione con il “Baldassare Castiglione” del divino urbinate, eppure così originale e personale. Clemente VII giunse ad affidargli l’esecuzione degli affreschi della sala dei Pontefici, di cui Giovanni da Udine e Perin del Vaga avevano già dipinto la volta. Purtroppo l’avventura romana del Parmigianino ha breve durata. A maggio del 1527, data fatale e traumatica per l’Europa, i Lanzichenecchi mettono a sacco Roma; lo stesso Francesco viene fatto prigioniero e “fu vicino a capitare male”, se non fosse stato pagato un oneroso riscatto in ducati d’oro.
L’esistenza del Parmigianino, peraltro assai breve (1503 -1540), fu decisamente travagliata e il visitatore troverà tutte le notizie biografiche nel catalogo, assai curato specialmente negli apparati.
In mostra, di lui e di Correggio (1489 – 1534), appaiono soggetti sacri e profani, oltre a un’abbondante galleria di disegni di gran valore; e ci viene data l’opportunità di riscoprire – avverte la Fadda – “quella che oggi chiamiamo la Bella Maniera: l’arte raffinata, colta, aristocratica che aggiunge grazia a Raffaello e Michelangelo”. Se dell’Allegri ammiriamo la soffusa dolcezza della “Sacra famiglia con Giovannino” e del “Matrimonio Mistico di Santa Caterina” o del bellissimo “Volto di Cristo”, non possiamo non restare sedotti dal malizioso“Venere con Mercurio e Cupido”. La dea della bellezza è in piedi, sinuosa come un’anfora, morbidamente sbilanciata sulla gamba destra, soffusa di una luce che rende la sua epidermide levigata, sfiorabile dalle dita. I contorni sono sfumati nella lezione di Leonardo, la figura si staglia contro il bruno dello sfondo, assorbita eroticamente dal chiaroscuro. E’ nuda, in una posa illanguidita, la curva rigonfia dei fianchi, le cosce generose, i seni spinti in alto, le labbra atteggiate a un gorgogliante sorriso: in verità “l’audacia dello sguardo della dea si rivolge verso di noi”, lei guarda chi la guarda, riservandoci un’intima, segreta complicità.
Del Parmigianino sono magnifici i tre ritratti virili, tra i quali sorprendente quello famoso di Lorenzo Cybo il bel capitano delle guardie del Papa. C’è inoltre l’affascinante – il curatore preferisce l’aggettivo ‘inquietante’ – “Autoritratto allo specchio convesso”, ispirato sembra da improvvisi vagheggiamenti alchemici. Sublime e, sia pure in chiave ricercatamente mondana, perfino giorgionesca, è La “Madonna di San Zaccaria” impreziosita dai molteplici piani di luce. Tra i disegni, tenero e incantevole appare l’ “Uomo seduto su uno sgabello, che sostiene una cagna incinta”; il gioco e l’affetto irrompono nella vita quotidiana trasformando ogni dettaglio in poesia.
Un’intera sezione è dedicata ai seguaci dei due Maestri; l’esposizione, a cura di David Ekserdjian si protrarrà fino al 26 giugno.