Papa Francesco, tre anni fa. Mai come in questo momento, è opportuno riflettere sul significato profondo di un pontificato che, sia pur tra mille difficoltà, ha senz’altro cambiato il dibattito pubblico e l’agenda di una politica sempre più distante, a livello globale, dalle esigenze e dagli interessi dei cittadini.
Riflettiamo, dunque, su come è cambiato, direi notevolmente, il pianeta negli ultimi tre anni. Quando papa Francesco è salito al soglio pontificio non si era ancora verificata la tragedia di Lampedusa del 3 ottobre 2013, nella quale persero la vita oltre trecento migranti, eppure tre mesi prima, l’8 luglio di quell’anno, il pontefice si era recato nell’isola per rendere omaggio alle già allora numerose vittime dei viaggi della disperazione, gettando in mare una corona di fiori in segno di rispetto per chi era stato inghiottito dalle onde nel tentativo di garantire a se stesso e ai propri cari un avvenire migliore.
Nel marzo di tre anni fa, non avevamo ancora assistito al drammatico dibattito internazionale se bombardare o meno Assad, in seguito al presunto uso di armi chimiche a danno degli oppositori da parte del despota di Damasco, eppure papa Francesco aveva già cominciato ad analizzare i rischi legati a quella che un anno dopo avrebbe definito la “Terza guerra mondiale a pezzi”: un conflitto differito e potenzialmente devastante, dalle conseguenze imponderabili per l’umanità.
Non siamo, tuttavia, al cospetto di un indovino e occhio alle banalizzazioni o alle divinizzazioni, anche perché tutto chiede papa Francesco fuorché di essere trasformato in un santino o in un personaggio da copertina; siamo al cospetto, questo sì, di un grande studioso e di un sopraffino analista delle questioni internazionali, il quale, utilizzando la sua forza mediatica e il seguito garantitogli dal ruolo, ha posto al centro dell’agenda mondiale un dibattito serio sul ruolo dell’essere umano nel Ventunesimo secolo.
Parlando a Strasburgo davanti ai parlamentari europei, redigendo l’esortazione apostolica “Evangelii gaudium” e l’enciclica “Laudato si'”, facendo suo e attualizzando lo spirito del Concilio Vaticano II, con un’apertura nei confronti delle altre religioni che non si vedeva da quasi mezzo secolo, indicendo un Giubileo straordinario dedicato alla Misericordia e scegliendo di aprirlo a Bangui, in Centrafrica, nell’inferno del mondo, là dove nessun altro leader avrebbe avuto il coraggio di metter piede, compiendo questi gesti, papa Bergoglio è riuscito nell’impresa di mettere in dubbio il vero male assoluto del nostro tempo, ossia quella che lui stesso ha definito la “globalizzazione dell’indifferenza”.
E non è un caso, osservando le conseguenze di queste azioni, che anche nei due paesi che più di tutti hanno sostenuto il liberismo, il capitalismo sfrenato, l’edonismo reaganiano e l’individualismo thatcheriano, basato sull’assunto secondo cui “la società non esiste”, non è un caso se proprio lì sono emerse due figure, Sanders e Corbyn, che, oltre ad ottenere il consenso dei cosiddetti “Millennials”, hanno impostato la propria visione e la propria proposta politica nel solco della predicazione di Francesco.
Perché la vera profezia di questo pontefice, singolare e forse irripetibile, sta proprio nel nome: scegliendo di chiamarsi come il poverello di Assisi, Bergoglio ha voluto rimettere al centro dello stesso magistero ecclesiastico la necessità di riaprire una partita che l’idea folle di Fukuyama che la storia fosse ormai finita e che il dominio imperialista fosse l’unica strada percorribile sembrava aver chiuso per sempre.
Papa Francesco, l’unico vero politico presente in questa stagione di mezze figure, ha detto, al contrario, che non è vero che non esistono alternative ad un modello economico, sociale e di sviluppo che ha condotto il mondo sull’orlo del baratro, che è possibile immaginare una crescita sostenibile e rispettosa, al tempo stesso, delle persone e dell’ambiente, che la tutela del paesaggio e del territorio è fondamentale per garantire la salute non solo degli uomini ma di tutti gli esseri viventi, che questa economia finanziarizzata uccide e che è indispensabile promuovere un'”ecologia integrale”, in grado di ripulire il pianeta dalle scorie di un’ideologia assassina che va avanti ormai da troppi anni e che ha invaso tutti gli ambiti della società. Affinché questo avvenga, è indispensabile, a suo giudizio, tornare a concepire la società come una comunità in cammino; una comunità nella quale anche il papa – per sua stessa ammissione – “ha bisogno della misericordia di Dio”.
Non è migliore il nostro mondo rispetto a tre anni fa; anzi, fra stragi, soprusi, violenze, lo sconfinato cinismo di un’Europa che ormai si commenta da sola e il demone dell’indifferenza che sta ammorbando anche la parte un tempo sana e partecipe della società, in questo contesto possiamo dire che la situazione è ancora più complessa e tragica di quanto non fosse la sera in cui papa Francesco si è affacciato per la prima volta dal balcone di piazza San Pietro.
Senza contare il rischio mortale costituito dalla possibile affermazione, in America, di un personaggio abietto come Trump. Eppure, nonostante ciò, come intuì con straordinaria lungimiranza Benedetto XVI nel momento in cui decise di dimettersi, a differenza di tre anni fa il mondo ha non dico una guida ma quanto meno un punto di riferimento, una flebile luce di speranza alla quale aggrapparsi per non sprofondare. Questo è il senso dell’intero pontificato di Francesco, questa è la ragione che ha ispirato la scelta del suo nome, questo è il significato di un destino che ha scelto di condividere con la collettività dei fedeli. Un uomo e la sua Chiesa, un uomo e il nostro percorso comune, un uomo che ha ricordato al mondo l’attenzione prestata dai vangeli al tema dei beni comuni, un uomo, semplicemente un uomo venuto da lontano che è stato capace di indicare un orizzonte alternativo e di compiere così una rivoluzione all’insegna della gentilezza, sia pur ferma e determinata, nella stagione della massima arroganza e della barbarie elevata drammaticamente a virtù.