Se c’è un messaggio da cogliere nell’esito delle primarie piddine di Roma e Napoli è che il potere renziano, per quanto ancora abbastanza solido, sta iniziando a mostrare qualche crepa. Vuoi per il divorzio del PD dalla sinistra (almeno a livello di elettori), vuoi per l’arroganza manifestata dai vertici del partito in seguito alla rivelazione di brogli di varia natura, vuoi per un’azione di governo tutt’altro che soddisfacente che, non a caso, comincia a stancare anche coloro che due anni fa consegnarono al PD un risultato clamoroso, vuoi infine per la fisiologica usura cui è soggetta qualunque leadership dopo una certa permanenza al governo, specie in una fase storica nella quale tutto è diventato usa e getta e anche i rottamatori corrono spesso il rischio di finire rottamati. Tutto questo Renzi lo sa perfettamente.
Sa, ad esempio, che le Amministrative andranno male (infatti mette le mani avanti, cercando di smarcarsi preventivamente da una possibile débâcle); così come sa che i rapporti con l’Unione Europea, al netto di qualche sorriso di circostanza e delle relazioni sostanzialmente cordiali con quel disastro ambulante di Hollande, ormai sono irrimediabilmente deteriorati, a causa di un populismo e di una serie di provvedimenti sbagliati e privi di coperture che lo stesso Monti, punto di riferimento della burocrazia di Bruxelles nel nostro Paese, non ha mancato di stigmatizzare nel corso di un dibattito al Senato.
Sa, inoltre, che la scissione che la minoranza dem sta rinviando all’infinito prima o poi si verificherà, probabilmente in seguito alla consultazione referendaria d’autunno, e a tal proposito la probabile candidatura di Bray non è che il preludio, anche se la suddetta minoranza non lo ammetterà mai e continuerà a ribadire (erroneamente) il proprio sostegno a un candidato, Giachetti, verso il quale non nutre alcuna stima né simpatia.
Da questo punto di vista, è bene mettere in chiaro che il loro atteggiamento, oltre a non essere condivisibile, è addirittura controproducente: non perché sia sbagliato opporsi alla candidatura di un soggetto come Giachetti, il quale, specie negli ultimi anni, ha dimostrato di avere ben poco a che fare con la cultura del centrosinistra, ma perché è indispensabile farlo a viso aperto. Se bisogna sfidare quello che di fatto si considera un avversario, lo si fa apertamente, assumendosi le proprie responsabilità e sottoponendo al giudizio degli elettori la propria visione del mondo e le ragioni del proprio dissenso. Pensare, come a nostro giudizio sta facendo una parte della minoranza dem, di poter sostenere Giachetti di facciata e uno tra Fassina e Bray nel segreto dell’urna non funziona e non è accettabile; e dovrebbero sapere bene, questi nostri amici e compagni, che se siamo ridotti così è proprio perché qualcuno, a suo tempo, acclamò Prodi la mattina e lo tradì sotto il catafalco di Montecitorio nel pomeriggio per colpire, e di fatto eliminare, sia il Professore che Bersani. Frememmo di sdegno allora, pretendiamo la massima trasparenza e onestà intellettuale adesso, altrimenti è la democrazia stessa a deperire e a smarrirsi e, quel che è peggio, trova legittimazione l’operazione trasformista portata avanti dal Presidente del Consiglio con Verdini e altri reduci dell’infausto ventennio berlusconiano, alla base dell’allontanamento di gran parte della base storica del PD.
Renzi, come detto, di tutto questo ne è pienamente cosciente e si comporterà di conseguenza.
Innanzitutto, essendo egli stesso un leader “liquido”, sa muoversi assai meglio dei suoi oppositori interni nel contesto di una società senza esempi, modelli e punti di riferimento: una società che più che liquida potremmo definire oramai liquefatta, nella quale sono venute meno le ideologie, le culture politiche, i princìpi, i valori, gli ideali, l’etica e la formazione di una classe dirigente all’altezza; una società nella quale si vota la persona e non il soggetto politico con il quale si presenta, nella quale stanno venendo meno le distinzioni storiche fra destra e sinistra, nella quale l’esito delle elezioni si decide nei salotti televisivi molto più che nelle piazze; insomma, l’habitat ideale per un soggetto che si definisce “uomo solo al comando” e ha varato una legge elettorale e una riforma della Costituzione che vanno esattamente nel senso di trasformare la democrazia parlamentare in un presidenzialismo di fatto senza adeguati contrappesi.
In secondo luogo, Renzi sa che anche i sindacati e le associazioni di categoria, su tutti la CGIL e la Confindustria, sono in grande difficoltà: a proposito della prima, basti pensare alla battaglia interna di Landini, nel tentativo di rifondare il sindacato e renderlo appetibile anche ai giovani, a chi è stato escluso dai processi produttivi, a chi non ha mai visto un contratto stabile e non crede più nel valore della rappresentanza sindacale; a proposito della seconda, basti pensare al fatto che un tempo il presidente di Confindustria si chiamava Agnelli o Montezemolo mentre per il successore di Squinzi si confrontano profili oggettivamente secondari, in un’atmosfera da fine impero che risente dell’addio della nuova FIAT marchionnesca, ormai trasformata in FCA, svincolata da Confindustria e dagli impegni editoriali di un tempo e proiettata verso un futuro globale nel quale il nostro Paese, che un tempo poteva definirsi una potenza industriale quasi solo grazie alla FIAT, avrà un ruolo marginale, per non dire pressoché nullo.
E da qui è facile passare al terzo ambito che si sta riorganizzando, ossia quello editoriale, con la fusione fra il Gruppo L’Espresso e il gruppo ItEdi che controlla “La Stampa” e “Il Secolo XIX”: la punta dell’iceberg di un processo di trasformazione dell’Italia che coinvolge, al contempo, politica, editoria e, come motore di tutto, il mondo del denaro e degli affari.
Scomparsa delle culture novecentesche, scomparsa dei corpi intermedi, scomparsa del concetto stesso di mediazione, grandi fusioni editoriali e, come contorno, tutt’altro che secondario, movimenti di rilievo anche nel mondo bancario e finanziario, oltre che nei già menzionati assetti imprenditoriali.
In poche parole, dopo la transizione costituita dal governo tecnico e dal governo del Presidente guidato da Letta, con Renzi stiamo assistendo alla stabilizzazione del sistema e dei suoi innumerevoli gangli. Affinché il processo possa essere portato a termine, i vari mondi, a loro volta in crisi e bisognosi di ristrutturarsi, hanno la necessità che l’uomo di Rignano duri almeno qualche altro anno, possibilmente un’altra legislatura, nella speranza che il Paese accetti questo nuovo schema e si ricrei una sorta di bloccone centrista in stile Balena bianca in grado di tagliar fuori le cosiddette forze anti-sistema.
Ciò che sfugge ai galantuomini in questione è che la DC aveva una sua visione sociale, legata al cattolicesimo democratico, e agiva in una fase storica nella quale all’America conveniva che i paesi del blocco occidentale stessero bene affinché accettassero senza patemi d’animo il Patto d’Atlantico e la collocazione nella propria sfera d’influenza. Oggi che tutto questo non c’è più, che il cavallo dell’economia non beve e che oltretutto mancano le culture politiche, le visioni e le competenze che caratterizzavano quella classe dirigente, i vari poteri rimarranno amaramente delusi dal proprio miope disegno. Anche perché, come ben sapeva un uomo di sistema come Enrico Cuccia, affinché il salotto buono del capitalismo possa pesare le azioni, è indispensabile che le grandi culture democratiche possano contare i voti, rendendo nuovamente protagonisti quei ceti sociali che sono stati esclusi da ogni processo decisionale, finendo preda del populismo di chi promette mirabolanti orizzonti senza indicare la strada attraverso la quale raggiungerli.