di Fabio Gambaro
Parigi. «Inostri regimi possono essere considerati democratici, noi però non siamo governati democraticamente». Parte da questa amara constatazione il nuovo utilissimo saggio di Pierre Rosanvallon, “Le bon gouvernement” (Seuil), ultimo capitolo della sua ormai più che decennale riflessione sulle forme e i caratteri della democrazia. In queste pagine lo studioso francese che insegna al Collège de France parte dall’insoddisfazione dei cittadini di fronte a governi che non rispettano le regole della trasparenza e della responsabilità, proponendo oltretutto politiche confuse e illeggibili.
Motivo per cui considera urgente tracciare una mappa delle regole del buongoverno e delle modalità che consentano ai cittadini di esercitare un controllo più stringente sulle azioni della politica. Solo il buon governo, infatti, può battere il disincanto democratico.
«Oggi la vera scommessa della democrazia non è il carattere democratico dell’elezione, ma il carattere democratico del governo», spiega Rosanvallon, già autore di molti saggi tra i cui Controdemocrazia e La società dell’uguaglianza (editi in Italia da Castelvecchi). «In passato, ci siamo soprattutto preoccupati di organizzare sistemi elettivi, preoccupandoci molto meno di come gli eletti avrebbero esercitato il potere. Ciò aveva un senso quando il Parlamento era all’origine delle leggi. Oggi i parlamenti hanno cambiato natura, da istanze indipendenti produttrici della legge sono divenuti istanze subordinate all’esecutivo».
Perché l’esecutivo ha assunto questo ruolo centrale?
«L’evoluzione è iniziata all’epoca della primo conflitto mondiale, quando l’urgenza della guerra ha anteposto la necessità della decisione all’elaborazione della norma. In guerra occorre essere nell’azione. Inoltre, l’inizio del XX secolo ha segnato l’avvento di un mondo più globalizzato e in rapida evoluzione, nel cui contesto il potere esecutivo è diventato sempre più importante. Da allora questa tendenza non ha fatto che rafforzarsi».
In effetti oggi nella società c’è una forte domanda d’azione e d’autorità.
«Soprattutto emerge il bisogno di efficienza e responsabilità. E un’assemblea non è responsabile: può deliberare, ma non agire. Da qui il dominio dell’esecutivo, che per altro favorisce il progressivo spostamento da una politica centrata sui programmi a una politica centrata sugli uomini. In un mondo mobile e frammentario dove non è più possibile pianificare il futuro come in passato, ad assicurare la continuità non sono più i programmi, costantemente rimessi in discussione dalla realtà e dalle crisi, ma gli uomini. Le persone restano anche se i programmi evolvono. Anche la mediatizzazione focalizza l’attenzione sugli uomini più che sulle idee».
La personalizzazione della politica favorisce cesarismo e populismo?
«È un rischio reale. Se nel XX secolo la patologia della democrazia è stata il totalitarismo, nel XXI secolo prevalgono le patologie della democrazia autoritaria. Si pensi a Putin, a Erdogan o ai populisti dell’America latina. Si tratta di situazioni dove l’elezione è democratica, ma il governo no. Il moderno cesarismo tende a far saltare le mediazioni tra il capo e il popolo. Inoltre considera la società come un unico blocco che deve pensare allo stesso modo, negando la diversità delle opinioni».
Anche le società occidentali sembrano diventare più sensibili alle sirene del populismo.
«La sua semplificazione sembra far presa. Da un lato i populisti, ad esempio Marine Le Pen, si presentano come i veri rappresentanti del popolo, accusando gli altri di rappresentare solo le élite. Dall’altro, propongono di risolvere i problemi solo attraverso il ripiegamento della società su se stessa. Il protezionismo è un modo per semplificare il mondo, rifiutandone le contraddizioni».
Lei dice che occorre definire le caratteristiche del buon governo per poter realizzare una vera democrazia d’esercizio. Cosa significa questa espressione?
«Una democrazia d’esercizio è una democrazia che definisce le regole di esercizio democratico del potere. Un potere infatti è democratico non solo perché è eletto democraticamente, ma soprattutto perché governa democraticamente. E se un potere è veramente democratico, la società deve potersene appropriare sempre e non solo il giorno delle elezioni. Ciò significa che il funzionamento delle istituzioni deve essere innazitutto leggibile e comprensibile. Oggi prevalgono decisioni parziali, incomprensibili per l’opinione pubblica. La prima qualità democratica è la leggibilità dell’azione di governo che consente ai cittadini di comprenderla, per poi approvarla o criticarla».
Un altro elemento fondamentale è la responsabilità?
«Certo. Un potere deve essere sempre responsabile e quindi sottoposto a valutazione. Oggi la valutazione avviene solo al momento dell’elezione. Abbiamo bisogno di momenti di valutazione più frequenti. Visto che la politica insiste sull’effetto annuncio più che sulla realtà dell’azione, sottoporre i politici a valutazioni frequenti significa costringerli a maggior coerenza e realismo».
Quali sono le altre caratteristiche del buon governo?
«La reattività, che non è solo la capacità di reazione di fronte agli avvenimenti, ma anche la volontà di uno scambio continuo tra potere e società. Poi la necessità di parlare con franchezza. Infine l’integrità morale che consente all’uomo di governo di identificarsi con la propria funzione, senza utilizzarla come un potere personale al servizio dei propri interessi».
Nel suo libro ha indicato alcune modalità — consigli, organismi, commissioni — per implicare maggiormente i cittadini nell’azione di controllo. Non c’è il rischio di complicare ulteriormente l’azione pubblica, già abbastanza macchinosa?
«Non credo. L’autogoverno è impossibile, ma una deliberazione pubblica allargata è auspicabile e realizzabile. Abbiamo sempre pensato la democrazia come l’espressione della voce del popolo, oggi abbiamo bisogno che essa sia anche l’organizzazione del popolo. E dato che non tutti i cittadini possono o devono partecipare a tutte queste istanze, l’estrazione a sorte di alcuni di loro potrebbe essere una novità importante. Ciò sancirebbe il principio che chiunque è potenzialmente in grado di partecipare: un modo per rendere di nuovo attraente e credibile la democrazia».
Repubblica, 25.2.16