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Paolo Poli: l’allegria che induce a riflettere

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Se era un sorriso quello di Paolo Poli, e di sicuro lo era, era però un sorriso amaro, quasi distaccato, profondo; un sorriso che induce tuttora a riflettere, con quella sua allegria scanzonata capace, al tempo stesso, di scuotere in fondo all’anima gli spettatori del suo teatro.
Perché Poli non era solo un gran commediante e un magnifico cantastorie, amatissimo dai bambini e in grado di appassionare anche gli adulti, e non era nemmeno unicamente un giullare o un guitto che si divertiva a recitare “en travesti”: Poli era anche, per non dire soprattutto, un intellettuale completo, il quale aveva trasformato l’antico motto latino “castigat ridendo mores” nel manifesto programmatico della sua arte.
Irriverente, mai incline al servilismo, sempre schierato dalla parte degli ultimi, dotato di una sua particolare, ma al contempo dissacrante, religiosità, Poli è stato per oltre mezzo secolo il punto di riferimento di quanti non si rassegnavano alla progressiva scomparsa del buongusto, alla sconfitta del garbo, all’avanzare irrefrenabile della parola urlata e all’arretramento della riflessione a vantaggio dell’insulto sguaiato.
Sapeva essere durissimo ma mai offensivo, sapeva esprimere concetti spesso amari ma sempre rispettando i propri interlocutori, non sopportava questo nuovo secolo, considerandolo volgare e privo di ogni bellezza, ma vi si è trascinato per sedici anni, cercando di mettere a frutto la propria saggezza e di insegnare alle giovani generazioni ad amare la vita e a interpretarla nel modo corretto.
Non amava la televisione, tanto che per oltre quattro decenni se ne è tenuto distante, ma vi è tornato, poco prima di andarsene, per raccontare i vizi capitali che da sempre caratterizzano l’uomo. Singolare anche in quel caso, senza mai esibire il frustino del castigamatti né ergersi a giudice, a differenza di tanti ipocriti che in pubblico proclamano supreme virtù e in privato sono la quintessenza del vizio, dell’esagerazione e del cattivo gusto.

Poli no: ha saputo essere un signore fino alla fine, si è saputo distinguere anche nell’epoca della stagione delle offese gratuite e delle battute pecorecce, è entrato nelle nostre case con dolcezza e se ne è andato senza aver paura della morte, accettandola come un fatto naturale e rifiutandosi di farne un dramma.
Se ne è andato con la stessa serenità, la stessa eleganza, la stessa limpidezza morale, lo stesso buon gusto e la stessa simpatia con la quale ha sempre vissuto, quasi a voler giocare l’ennesimo scherzo al destino, quasi a volersi concedere un ultimo sberleffo prima della discesa del sipario.

E noi restiamo qui, con la sua meraviglia fra le mani, col suo stupore ingenuo e maturo al tempo stesso, col suo candore d’animo che ci appare quasi fuori luogo in questo tempo di cinici e spregiudicati attori da strapazzo, con indosso un’eterna maschera che serve loro a celare la propria pochezza e la propria nullità. Restiamo qui a rendere omaggio a un altro grande che se ne va, in questo inizio di 2016 che ci sta privando delle poche, flebili certezze e degli esigui punti di riferimento che ci erano rimasti.


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