Che a 22 anni dalla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, avvenuta il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio, ancora non sia stata fatta verità, lo dimostra la riapertura del processo sul loro omicidio, il prossimo 6 aprile a Perugia. Ma nello stesso arco di tempo in Italia una Fondazione è riuscita a trasformare il lutto salvando i bambini malati da morte sicura.
L’anniversario della morte in Somalia della giornalista del Tg3 e dell’operatore triestino torna d’attualità anche grazie alla decisione del Comune di Firenze di intitolare una piazza alla loro memoria, come richiesto dalla Comunità delle Piagge, il comitato locale che ha promosso il riconoscimento.
Dopo la cerimonia ufficiale di questa mattina alle 11, sempre la Comunità delle Piagge ha organizzato per domani l’incontro pubblico “Inaugurazione di piazza Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Alla ricerca di verità e giustizia nel ricordo dei giornalisti uccisi perché sapevano troppo”.
A pochi giorni dalla decisione della Camera dei deputati di mettere online l’archivio sul caso raccolto dal Parlamento, il dibattito vedrà la partecipazione di Mariangela Gritta Greiner, già presidente dell’associazione Ilaria Alpi; della giornalista esperta di segreti di Stato, Sandra Bonsanti; della promotrice della mozione per l’intitolazione approvata dal Consiglio comunale di Firenze, Ornella De Zordo, e di Alessandro Santoro e Cristiano Lucchi della Comunità delle Piagge.
A partecipare è stata invitata anche la Fondazione Luchetta, Ota, D’Angelo, Hrovatin, nata per salvare i bambini vittime dalle guerre all’indomani dei quattro lutti che nel 1994 colpirono il mondo del giornalismo triestino.
L’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin avvenne infatti a soli due mesi dal 28 gennaio, quando gli inviati Rai di Trieste Marco Luchetta, Sasha Ota e Dario D’Angelo vennero uccisi a Mostar da una granata mentre stavano realizzando uno speciale TG1 sui bambini vittime della guerra nell’ex Jugoslavia.
La grave sofferenza per la scomparsa dei giornalisti triestini e la mobilitazione della cittadinanza che ne seguì indusse i loro cari, gli amici e i colleghi a dare vita alla Fondazione a loro intitolata che da 22 annicura i bambini bisognosi. Il primo ad essere stato accolto fu Zlatko, il piccolo salvato a Mostar mentre Luchetta, Ota e D’Angelo gli facevano da scudo umano.
Racconta la presidente della Fondazione, Daniela Schifani, vedova Luchetta: «Proprio perché indimenticabile, il grave lutto non è rimasto fine a se stesso. Col tempo la nostra attività si è ampliata per permettere, più in generale, a tutti i bambini incurabili nei loro Paesi d’origine che riusciamo a intercettare, di essere accolti a Trieste affinché possano ricevere le cure sanitarie di cui hanno bisogno».
Portata avanti col lavoro dei volontari e sostenuta dalle donazioni dei cittadini, negli anni la Fondazione ha tessuto una rete umanitaria che, tra ambasciate e consolati, coinvolge, fra gli altri, l’ospedale Burlo Garofolo e l’associazione Bambini del Danubio di Trieste.
Da allora ha accolto nelle sue case di accoglienza di Trieste 1.524 persone, di cui 604 bambini e 922 loro familiari. L’ultimo arrivato è il piccolo Hathal, 11 anni, sopravvissuto al genocidio che nell’agosto 2014 la comunità Yazida ha subito in Iraq.
Scampato alla furia dell’Isis e rifugiatosi – insieme ad altri 400mila – nel Kurdistan iracheno, Hathal è malato di emofilia, una malattia ereditaria che comporta una grave insufficienza nella coagulazione del sangue. A individuarlo, nei campi degli sfollati, il medico triestino Marzio Babille, già presidente dell’Unicef in Iraq: «Gli Yazida hanno subito il primo genocidio del terzo millennio. Perseguitati perché di religione diversa (e pacifica),hanno dovuto lasciare tutto all’improvviso, le donne fatte schiave, le loro case distrutte tra mille atrocità».
In Kurdistan hanno trovato rifugio nei campi di accoglienza allestiti dall’Onu, dove però non hanno cibo, acqua e medicinali a sufficienza.
Sempre Babille spiega che «i finanziamenti della Comunità internazionale hanno coperto il piano internazionale di assistenza solamente per il 50%, così centinaia di famiglie Yazida non riescono ad essere assistiti nei campi e fuori dai campi».
Fortuna che a Trieste il piccolo Hathal verrà operato il 24 marzo, mentre la Fondazione aspetta un bambino malato di estrofia vescicale, questa volta dalla Siria.
Altri dovrebbero arrivare presto dal Kurdistan iracheno, dove si contano almeno 300 bambini bisognosi di cure urgenti. Sempre che non sia troppo tardi.
Come è successo a Hakim, deceduto l’otto settembre poco prima di partire, dopo un urgente quanto inutile ricovero all’ospedaletto di Dohuk. «Un linfoma lasciato senza terapia per due mesi o più scivola via rapidamente» hanno riferito i medici alla Fondazione, rivelando che per lui non c’era più niente da fare.