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Martin Chulov, storico inviato del Guardian: “l’Isis ha cambiato strategia perché ha perso e perché conosce le nostre paure”

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Martin Chulov è lo storico inviato del quotidiano britannico Guardian in Medio Oriente. Nel 2015 ha ottenuto il premio Orwell quale miglior giornalista inglese dell’anno. Dopo gli attentati di Bruxelles spiega, in un editoriale pubblicato il 25 marzo, la nuova strategia del terrore dell’Isis, da esportare nel cuore dell’Europa. La sua tesi è che questa strategia sia il frutto di una oggettiva sconfitta militare dell’Isis sul campo e della profonda conoscenza che i capi dell’Isis hanno della civiltà europea, e delle sue paure. Abbiamo tradotto l’articolo per i nostri lettori.

Nove giorni prima degli attentati di Parigi del 13 novembre, i leader dello Stato islamico si riunirono nella cittadina siriana di Tabqah per discutere sul futuro dell’organizzazione terroristica. I capi del cosiddetto Califfato avevano affrontato viaggi complicati, nel timore dei raid aerei che si abbattevano sulla città occidentale di Raqqa. In quella che si segnalava come la fase critica nella evoluzione del gruppo, essi si convinsero che avrebbe dovuto esserci un nuovo focus sulla esportazione del caos verso l’Europa. Erano consapevoli del fatto che più di 200 militanti sarebbero stati disposti a tutto in Europa, ed erano pronti a ricevere gli ordini.

I dettagli di quella riunione sono stati resi noti al Guardian da due membri dell’Isis. Entrambi affermarono che il clima della riunione di quei primi giorni di novembre del 2015 era trionfalistico. I capi dissero che avrebbero dovuto concentrarsi sulle capitali europee, ed avevano convinto i foreign fighters a far ritorno in patria per preparare i piani degli attentati. E attesero. La mossa segnò un mutamento decisivo nella scelta strategica di concentrare ogni sforzo militare sulle terre che avevano già conquistato in Siria e in Iraq – strategia che non avrebbe potuto prevalere contro 14 diverse forze aeree e contro la potenza onnisciente dei loro nemici. Così, il gruppo decise di portare la guerra nel cuore dei suoi stessi nemici. I mezzi per farlo erano sempre stati là, trasferiti attraverso quelle porose frontiere europee che ne avevano facilitato i viaggi di andata. In sostanza, l’Isis aveva dato priorità al controllo delle popolazioni piuttosto che a quello sulla geografia. Non aveva certo mollato la morsa sull’enorme territorio tra Iraq e Siria che aveva già conquistato a spese di ciascuno stato sovrano, ma ora quell’area sembrava meno importante rispetto alle società così distanti che avrebbe potuto influenzare.

La diffusione dell’Isis si è consolidata in due modi. Il primo, attraverso cellule di militanti che hanno giurato fedeltà all’Isis, la cui diffusione si estende dall’Egitto alla Malesia, all’Indonesia, dalla Libia allo Yemen. Da queste cellule sarebbe partito un piccolo gruppo di foreign fighters, l’avanguardia della nuova generazione di miliziani del jihad globale. Questi uomini hanno avuto la missione di formare le cellule dormienti, e attendere gli ordini. I capi dell’Isis hanno visto opportunità ovunque potessero sorgere, ma l’ondata maggiore aveva come obiettivi l’Italia, il Belgio, la Germania e il Regno Unito. Un membro dell’Isis aveva rivelato: “dissero che il Regno Unito fosse il più difficile da colpire. Ma in Belgio sarebbe stato facile. Venne citata anche la Spagna”.

In sei mesi, l’Isis ha perso più del 30% del territorio controllato dall’estate del 2014. E per la fine del 2016 si prevede che ne perda una quantità significativa. Palmira, l’antica città siriana, è già sottoposta ad attacco delle truppe regolari siriane, russe e iraniane. Mosul, dove l’insurrezione dell’Isis in Siria si era trasformata in un fenomeno che aveva messo in pericolo l’ordine nell’intera regione, è sotto minaccia delle forze americane sostenute dalle forze irachene. Oggi l’Isis sa bene che la geografia non era altro che il fine ultimo, un territorio da conquistare per diffondere la sua influenza in lungo e in largo. I capi, e tra loro soprattutto Abu Bakr al-Baghdadi, sono degli ideologi implacabili, convinti del loro ruolo di custodi di una lettura ultra radicale degli insegnamenti coranici e disposti a uccidere chiunque non si sottometta alla loro visione del mondo. I capi dell’Isis ritengono che le società europee si possano indebolire per mezzo della barbarie. Uno dei membri dell’Isis disse che i capi avevano una profonda conoscenza e consapevolezza dell’architettura politica europea e del terrore della sua gente.

“Alla riunione, parlavano di quali società far crollare per prime e con quali effetti. Pensavano che grossi attentati avrebbero esercitato una fortissima pressione sulla Ue e sulla Nato. Per loro, la condizione ideale”, rivelò il membro dell’Isis. Dentro e intorno a Tabqah, e nella provincia irachena di Anbar, il gruppo concentrava i suoi sforzi sul controllo delle popolazioni. In due anni, l’Isis si era posizionato come il rappresentante de facto dei mussulmani sunniti della regione – dato l’obiettivo fallimento di ogni processo politico teso a quel risultato in Iraq e in Siria. L’Isis trae energia dal senso di liberazione nella comunità sunnita che nel corso di 13 anni ha perso potere e influenza in Iraq, in Siria e in Libano. Anche qui, la geografia fisica gioca un ruolo meno decisivo rispetto alla possibilità di guidare i centri urbani. Mentre il gruppo è dunque sulla difensiva, dal punto di vista militare, in alcuni angoli del Califfato, i suoi obiettivi strategici sono ora più realizzabili che mai. “I capi ci pensano spesso. Pensano di conoscervi meglio di quanto voi conoscete voi stessi”, concluse il membro dell’Isis.

Da jobsnews


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