Viviamo giorni di grande apprensione, pressati dai roboanti proclami di esponenti politici, analisti, editorialisti sui maggiori massmedia, che spingono l’opinione pubblica a considerare sempre più come inevitabile e salvifico l’ingresso in guerra contro quella terra desertica, piena di insidie tribali, ma ricca di fonti energetiche, che è la Libia.
La storia, purtroppo, ci ripropone un monito amaro e ineluttabile. Quando una o più nazioni hanno accumulato un forte Debito pubblico, impossibile da sanare, e la situazione economica si trova in continua deflazione e crescente disoccupazione, ecco che ci si rivolge altrove: non a ricette economiche, magari “creative” o alternative al sistema capitalistico liberista, ma verso rigurgiti nazionalisti, xenofobi e militaristi.
In poche parole: si va in guerra!
E’ stato così durante il cosiddetto “secolo breve”, quel Novecento che ha visto l’Europa scannarsi a vicenda e distruggere la vita di oltre 60 milioni di persone nel Vecchio continente, tra la prima e la seconda guerra mondiale (più di 100 milioni comprendendo anche il resto del mondo). Dopo 70 anni dalla fine del secondo conflitto, ecco che le condizioni avverse alla crescita economica ripropongono similitudini angoscianti.
Diversamente da allora, questa volta, i conflitti non sono dentro l’Europa, ma tra alcuni stati europei e parti di stati mediorientali. Ad acuire il quadro di instabilità e di tensione si è aggiunta un arma sofisticata e universalmente utilizzata: quella della tecnologia, ovvero l’uso dei mezzi di comunicazione ed elaborazione dati che sfruttano le immense capacità de la digital economy, gli algoritmi, i satelliti e i social network.
Prima e durante la guerra, convenzionale o terroristica, la Rete opera come un acceleratore delle operazioni e rende quasi paritario lo scontro tra grandi eserciti tradizionali e piccole formazioni irregolari, per di più spinte dal “furore religioso”.
D’altro canto, rispetto all’intervento armato in Afghanistan e in Iraq, dopo l’attacco terroristico alle torri gemelle di New York, il movimento pacifista non è più così determinato ed organizzato, anche se da alcuni sondaggi (come quelli realizzati in Italia) rivelano una netta opposizione ad entrare in guerra. La preoccupazione più diffusa riguarda le reazioni terroristiche che potrebbero scaturire dalle cellule islamiche fondamentaliste più o meno dormienti. Le stragi avvenute in Francia sono ferite ancora fresche e scioccanti: oggi, rispetto alle tentazioni interventiste di massa prevale l’istinto individuale di sopravvivenza.
In Italia, i media stanno da settimane “preparando il terreno” per instillare nelle coscienze un sentimento di “inevitabile ricorso” alle armi per “pacificare”, “stabilizzare”, “risolvere alla radice” l’espandersi del Califfato nero del Daesh. Cresce frattanto il sentimento xenofobo e anti-islamico in tutta Europa; le centinaia e centinaia di migliaia di profughi vengono ritenuti un pericolo più che un’occasione di dimostrare la solidarietà e l’accoglienza per chi soffre il dramma della guerra e delle persecuzioni. Si rischia l’implosione dell’Unione Europea, l’abolizione del Trattato di libera circolazione di Schengen, addirittura viene messa in discussione la tenuta dell’Eurozona.
Alcuni paesi erigono muri di varia natura: altri chiedono una flessibilità nell’interpretazione delle norme comunitarie. Il governo italiano chiede rispetto per il proprio impegno umanitario nei confronti dei migranti, più fondi e una maggiore flessibilità nella contabilizzazione del proprio deficit pubblico e delle severe restrizioni del fiscal compact.
Il Presidente del consiglio Renzi, attentissimo ai sondaggi e agli umori di “pancia” dell’elettorato, sa che non potrà mascherare un intervento bellico in Libia solo come opera di “pacificazione” su richiesta di un governo tripolitino di “unità nazionale”, ancora al di là da venire, e su mandato dell’ONU/NATO. Certo, le spinte interventiste di alcuni settori industriali energetici nostrani e bancari finora lo avevano indirizzato verso questa opzione con elmetto, giubbotto antiproiettile in kevlar e tuta mimetica. Ma le analisi dei nostri esperti militari e dei servizi segreti non lasciano dubbi: il rischio è di finire impantanati nelle dune desertiche, seppure a difesa dei centri nevralgici per la produzione e il trasporto di petrolio e gas, impelagati nelle faide sanguinarie delle diverse tribù, che solo un dittatore come Gheddafi sapeva tenere a freno, grazie alla sua politica di sussidi economici e di corruzione diffusa (la Libia, fino al 2011, era il paese nordafricano con la maggiore immigrazione tunisina ed egiziana, in cerca di occupazione e migliore tenore di vita).
E poi c’è la grande opera di moral suasion messa in piedi dal Vaticano e dalle continue prese di posizione antibelliche di Papa Francesco. Un peso politico ed etico, quello dell’opinione cattolica, che potrebbe non solo incrinare i rapporti tra Italia e Vaticano, ma anche innescare movimenti tellurici nello stesso elettorato di Renzi, fino a lambire quello del centrodestra.
Ecco, allora, le continue rimostranze del nostro governo affinchè l’Unione europea accolga la supplica di allargare le maglie della flessibilità: per l’impegno verso i profughi, ma anche per l’intervento militare di pacificazione. Sotto sotto, in realtà, Renzi e il superministro Padoan vorrebbero che si abbattesse o ristrutturasse il Debito pubblico, volato al 132,6%, con l’avallo dell’amministrazione USA di Obama e l’accondiscendenza di Bruxelles. I mercati finanziari, però, restano scettici e per questo lo spread non scende sotto la soglia salvifica del 100% rispetto ai Bund tedeschi.
In pratica, vista l’imminente entrata in guerra, i nostri governanti chiedono, per ora “sottovoce” e con giri di parole, di scorporare le spese belliche future e quelle di “stabilizzazione e ricostruzione” della Libia con un abbattimento del nostro Debito, il più elevato tra i paesi del G20 e dell’area OCSE. E solo una vasta campagna mediatica, che metta in correlazione intervento di “pacificazione” con la riduzione del Debito e, quindi, la conseguente riduzione delle tasse e dell’imposizione fiscale per le aziende potrebbe modificare il “sentiment” dell’opinione pubblica, oggi contraria all’entrata in guerra, seppure non convenzionale.
Il miraggio di una situazione finanziaria pubblica meno oppressiva, di un maggiore impegno di risorse pubbliche verso investimenti per favorire l’occupazione e aumentare il tenore di vita potrebbe anche stabilizzare il governo Renzi, rendere concreta la nascita dell’agognato “Partito della Nazione” e iniziare un lungo periodo di “Renzismo al potere”.
Ma vale la pena ricordare il monito degli storici e degli analisti: “da sempre le sabbie della Libia sono infide e infauste per le armate italiane!”