Libia, no dei tre presidenti

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La ricchezza una volta era il petrolio ora è il traffico di armi e di poveri profughi da traghettare in Italia. Sei anni di guerra hanno devastato la Libia, non ci sono più leggi né certezze. Circa 200 mila soldati e miliziani, 5 mila terroristi islamici dell’Isis, si contendono un paese immenso, grande sei volte l’Italia composto in gran parte da deserto. “Uno scatolone di sabbia”, lo definì Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio nei primi anni del 1900.

Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna sono con il “dito sul grilletto”. Da sei mesi le pressioni sull’Italia per un intervento militare in Libia sono diventate fortissime. I vertici statunitensi premono su Matteo Renzi per ottenere o un’azione di terra con l’impiego di almeno cinquemila uomini (questa tesi è stata sostenuta dall’ambasciatore americano a Roma in una intervista al Corriere della Sera) o per spuntare il “sì” allo svolgimento di bombardamenti aerei assieme a caccia di Washington, Parigi e Londra.

Nel frattempo l’aviazione Usa sta effettuando dei raid selettivi su obiettivi mirati per colpire l’Isis e battere l’espansione dei terroristi islamici in Libia. Nel paese nord africano opererebbero anche delle truppe speciali statunitensi, francesi e inglesi, assieme ai rispettivi agenti dei servizi segreti,  per indirizzare i raid aerei.

Il presidente del Consiglio italiano da tempo ripete: l’Italia è pronta ad intervenire in Libia contro il terrorismo, come del resto già avviene in Iraq e in Afghanistan, ma solo su richiesta di un governo di unità nazionale della nazione un tempo governata con pugno di ferro da Muammar Gheddafi. Ma i due Parlamenti, quello di Tripoli e quello di Tobruk, in forte antagonismo tra loro, ancora non hanno dato la fiducia a un governo di unità nazionale. Da dicembre si dà per fatta l’intesa, ma al dunque manca sempre il disco verde ad un esecutivo unitario.

Paolo Gentiloni ha solennemente dato l’altolà parlando al Senato: «Il governo non si farà trascinare in avventure inutili e perfino pericolose per la nostra sicurezza nazionale».  Il ministro degli Esteri ha ribadito: l’Italia  «interverrà se e quando possibile su richiesta di un governo legittimo» e l’esecutivo riferirà al Parlamento.

Nei giorni scorsi Renzi ha usato quasi le stesse parole: «L’Italia farà la sua parte, ma la prima cosa da fare è che a Tripoli ci sia un governo solido, anzi solidissimo». Invece i contrasti tra Tripoli e Tobruk, tra le decine di tribù e le tante milizie cittadine, sono sempre forti; così la Libia continua ad essere sconvolta da una sanguinosa guerra civile e i terroristi islamici, impadronitisi di Sirte, cercano di allargare le loro conquiste.

La posta in gioco è il controllo di città, di territori, dei pozzi di petrolio e di gas, delle raffinerie (l’Eni storicamente è impegnatissima con uomini, mezzi e ingenti investimenti).

Proprio per la mancanza di un invito da parte di un governo unitario «oggi –ha rimarcato Renzi-  non è all’ordine del giorno una missione militare italiana in Libia». Più precisamente: «Con me presidente del Consiglio l’Itala a fare l’invasione in Libia con cinquemila soldati non andrà..

Sento parlare di cinquemila soldati: Che è un videogioco?». Se la Libia è in preda del caos, delle bande, dei terroristi «è perché in passato qualche politico ha avuto la bella idea» di bombardare per cacciare Gheddafi senza pensare ad una soluzione politica per assicurare stabilità al paese.

Renzi ce l’ha “in particolare” con le incursioni dei caccia di Parigi che, improvvisamente, nel 2011 bombardarono l’esercito di Gheddafi senza pensare alle conseguenze.

Ora c’è da fronteggiare una tripla tragedia: la disgregazione della Libia insidiata dai terroristi del Califfato, le minacce di attentati dell’Isis all’Italia, il fiume di migranti in fuga con ogni tipo di imbarcazioni verso le nostre coste.

“Calma, buon senso, equilibrio” sono le tre parole chiave del governo italiano per dare una risposta alla crisi libica senza commettere passi falsi, evitando improvvise iniziative militari, con il rischio di ricompattare le molteplici milizie del paese nord africano contro “gli invasori occidentali”, commettendo l’errore di configurare l’idea di “una guerra di religione”. Il rapimento di quattro operai italiani, e l’uccisione di due di essi, è una tragedia che non si deve ripetere. Probabilmente, ha precisato Gentiloni, sono stati rapiti da criminali fondamentalisti e «non è stato pagato alcun riscatto». Ma la Libia e il rapimento dei quattro italiani sembra essere ancora un mare pieno di misteri.

A dare una mano a Renzi sono scesi in campo anche Sergio Mattarella e Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica ai primi di febbraio è andato a Washington per parlare con Barack Obama e sostenere la strada di un intervento solo sotto le bandiere dell’Onu e dietro richiesta di un governo unitario libico. Convinse il presidente degli Stati Uniti d’America. Obama commentò dopo il colloqui con Mattarella: «Abbiamo parlato degli sforzi congiunti per aiutare la Libia a formare un governo che permetterà alle loro forze di sicurezza di stabilizzare il territori e neutralizzare l’Isis». Il capo dello Stato italiano ha confermato questa impostazione nella riunione del Consiglio supremo di difesa di qualche settimana fa.

Napolitano, molto stimato negli Stati Uniti e in Europa, è su analoghe posizioni. L’ex presidente della Repubblica ha usato parole nette: «Il governo è prudente perché se non ci chiamano, nemmeno ci si va. Figuriamoci se ci si va con migliaia di militari senza neanche essere chiamati. Questo non esiste». È una secca bocciatura della richiesta emersa di inviare un corpo di spedizione di cinquemila soldati.

Renzi, Mattarella, Napolitano la pensano nello stesso modo. I “tre presidenti” non vogliono sentire parlare di pericolosissime avventure militari dalle possibili conseguenze sciagurate. La guerra senza la politica non ha senso. Karl von Clausewitz, generale prussiano a grande stratega nei primi anni del 1800, affermava: «La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi». Tutti i sondaggi danno gli stessi risultati: la gran parte degli italiani vuole debellare l’Isis, ma è contraria ad un’azione militare. Non sempre Palazzo Chigi e Quirinale in passato hanno concordato in modo così pieno in un delicato campo come la politica estera e nei cruciali rapporto con gli Stati Uniti.


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