Un luogo angusto, poco illuminato, diversi cadaveri riversi a terra, tra cui due dai chiari lineamenti occidentali. Uno dei due uomini, più anziano, ha barba e capelli bianchi lunghi, come il secondo, più giovane. Entrambi indossano tute sportive della stessa marca e modello.
Così, attraverso le immagini postate sulla pagina Facebook del gruppo islamista libico “Febbraio al Ajilat-2” , arriva la prima conferma della morte di Fausto Piano e Salvatore Failla, due dei quattro operai dell’azienda Bonatti rapiti nel luglio 2015 in Libia.
I due italiani sarebbero rimasti uccisi già alcuni giorni prima nel corso di scontri tra le forze della coalizione “Alba della Libia” e i miliziani dello Stato islamico nella regione di Sabrata.
Il post del gruppo islamista mostra le foto di altri corpi di jihadisti di Daesh e informa che “sono stati uccisi dai giovani salafiti nei pressi della stazione radio Lithim”. Il messaggio afferma che tra le vittime vi sarebbero anche “due italiani”.
Solo dopo la diffusione di queste immagini è arrivata la nota ufficiale della Farnesina, che non si era sbilanciata fino a quel momento per la mancanza di un quadro preciso su cosa fosse realmente accaduto, con la conferma della morte di Piano e Failla.
Secondo le prime ricostruzioni, il raid delle milizie libiche sarebbe avvenuto nella parte occidentale del Paese nordafricano, da giorni teatro di scontri tra gli uomini del Califfato e delle forze di sicurezza locali. Le prime versioni parlavano dell’assalto a “un covo”, ma dalle immagini pubblicate è apparso chiaro che si trattava di un convoglio di jihadisti in fuga verso Sud, a bordo di un’auto c’erano anche i due italiani, forse tutti e quattro.
Ma Gino Pollicardo e Filippo Calcagno, per la nostra intelligence, sarebbero ancora vivi. La speranza dei servizi italiani e di poter stabilire un canale per cercare di ottenere la liberazione dei nostri connazionali.
Speranza di tutti noi, che rivolgiamo alle famiglie delle vittime un sentito cordoglio.
A fronte della drammaticità degli ultimi eventi bisognerebbe evitare polemiche e strumentalizzazioni politiche.
Ma visto l’aggravarsi della situazione in Libia e il prospettarsi di un intervento a guida italiana è inevitabile porsi delle domande e ponderare con cautela ogni possibile iniziativa.
Il presidente del Consiglio italiano Matteo Renzi ha già chiarito che nessuna missione in Libia possa essere autorizzata senza il pieno accordo e sostegno del governo libico. Massima prudenza, dunque, nelle decisioni su tempi e modalità di un’azione militare, da distinguere da interventi mirati antiterrorismo, come per altro condiviso tra il presidente Mattarella e il presidente Obama poco meno di un mese fa alla Casa Bianca.
Eppure l’avanzare di Daesh, che ha esteso le proprie barbarie dalla Siria all’Iraq, fino alla Libia, spaventa e induce una buona parte di militari ed esponenti politici a ritenere inevitabile la necessità di intervenire militarmente.
Le minacce rivolte all’Italia nelle ultime settimane hanno animato nel nostro paese un dibattito che è destinato ad alimentarsi dopo l’uccisione dei due tecnici, anche se la dinamica della loro uccisione resta tutta da chiarire.
Finora si è deciso di privilegiare la soluzione politico – diplomatica, con un’iniziativa internazionale sotto l’egida Onu. Eppure Stati Uniti, Francia ed Egitto continuano a ritenere che lo Stato Islamico non possa essere fermato se non con l’uso della forza e il coinvolgimento dell’Italia.
Ma qual è il limite invalicabile per scatenare un’azione di forza, che inevitabilmente coinvolge anche popolazioni inermi?
Pur essendo la maggioranza dell’opinione pubblica convinta che si debba frenare l’avanzata dello Stato Islamico e non si possa restare neutrali nei confronti di crimini che hanno raggiunto livelli di ferocia inaudita, il rischio che si creino i presupposti per un ‘nuovo Iraq’ o una ‘Libia 2’ obbliga a una riflessione sui ‘danni collaterali’ che ne conseguirebbero se il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite autorizzasse il ricorso a “tutte le misure necessarie”, formula di rito che di fatto dà il via libera al dispiegamento di forze di terra e con esso a una vera e propria guerra, per contrastare Daesh.