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La ricostruzione post sisma in Emilia e la disomogeneità di giudizi processuali

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Per primo fu il prefetto Gabrielli, all’epoca capo della Protezione Civile, a spezzare la consuetudine del politicamente corretto nell’analisi di fatti tragici, dicendo che il territorio emiliano reagì al terremoto meglio di quello aquilano. Era l’inizio della celebrazione del “Sistema Emilia”: imprenditoriale, sociale e politico. Piccoli centri con grandi sindaci, celebrati come eroi perché seppero caricarsi sulle spalle paesi rasi al suolo, centri storici che persero forma e identità, frazioni isolate, distretti industriali dilaniati. Probabilmente il paragone con L’Aquila è impossibile farlo; sono stati terremoti che hanno devastato due territori troppo diversi fra loro.

Sicuramente però quella che si vide fra Modena e Ferrara, le province più devastate, fu una reazione impressionante. Il propulsore della ricostruzione fu la vocazione imprenditoriale di un territorio che da solo vale il 2% del pil nazionale, allergico all’immobilismo, pratico e benestante tanto da saper provvedere a far ripartire le proprie aziende da subito.

Quello che sorprese raccontando le due grosse scosse che fecero 28 morti e un numero incalcolabile di danni, fu come le comunità spontaneamente si strinsero attorno alle istituzioni. Scomparvero partiti e coalizioni, vennero avanti le persone. Nei cortili dei pochi edifici agibili, si formarono grosse tavolate dove vennero disposte tutte le carte, annotate le richieste, i numeri di telefono di chi aveva bisogno e di chi voleva donare. Si scriveva una pagina importante di civiltà. Una pagina bianca nella storia del territorio e in quello dei municipi, che come a l’Aquila, si trovarono davanti ad un grosso vuoto normativo sulle emergenze. Una mancanza che i legislatori non seppero colmare dopo il disastro aquilano e che non hanno saputo colmare nemmeno dopo quello emiliano.

La gestione dell’emergenza e della ricostruzione fu affidata in entrambi i casi a Commissari che dovettero decidere con decine di decreti emergenziali, mentre sarebbero servite procedure rodate da mettere in campo subito, un kit medico di pronto soccorso. Fu lasciato spazio al disordine, terreno di coltura della criminalità che si è inserita dove ha potuto negli appalti della ricostruzione. Cittadini, sindaci, imprenditori, tutti si resero conto che seguir le evasive regole in vigore, in quei giorni, avrebbe dilatato l’emergenza all’infinito. Così le normative furono interpretate, a volte inventate, altre ignorate, tutto questo per dare risposte tempestive alle richieste d’aiuto.

Ma a procedere così furono commessi errori, anche gravi. Quello della riaperture delle fabbriche dopo la prima scossa fu il peggiore. Era il 29 maggio, erano passati 9 giorni dal primo sisma, la terra sembrava essersi fermata. Ma alle 9 in punto del mattino arrivò la seconda scossa. I morti quella mattina furono 21, quasi tutti operai tornati al lavoro. Di chi fu la colpa?

Non c’era una norma chiara che regolasse la riapertura delle fabbriche. Ognuno si mosse per conto suo. I titolari delle aziende fecero fare le perizie di agibilità ad esperti di fiducia. Alberto Silvestri, sindaco di San Felice sul Panaro, fu uno dei più celebrati per la sua capacità di gestire in autonomia l’emergenza. Per accelerare la riapertura delle tante aziende del suo territorio, autorizzò i tecnici privati a concedere l’agibilità provvisoria ai capannoni che avevano realizzato una prima messa in sicurezza.

Alla Meta, azienda meccanica nel modenese, fu incaricato dei lavori un geometra. Per essere davvero sicuri che quei lavori bastassero fu chiamato anche un ingegnere strutturista a controllare. Non fece in tempo. Appena entrato nel capannone la seconda scossa fece crollare il solaio che schiacciò lui e due operai. Per questa vicenda il sindaco Silvestri, insieme al capoufficio tecnico del comune, al proprietario della ditta e al geometra sono indagati per concorso in omicidio colposo.

Eppure la normativa d’urgenza e in deroga alle leggi vigenti, che stabiliva i soggetti abilitati a dare l’agibilità dei capannoni fu firmata dal capo della Protezione Civile  solo 4 giorni dopo, in pratica a cose fatte. “Una colpevole ammissione di ritardo nell’affrontare un problema delicato che coinvolgeva la sicurezza delle condizioni lavorative” scrisse nella relazione la commissione di esperti incaricarti dal gip di Modena per capire le responsabilità delle morti, che sono “imputabili al quadro normativo in vigore”.

Questa è l’ultima inchiesta rimasta in piedi a Modena, tutte le altre per lo stesso motivo si sono sfilacciate: senza una norma precisa non ci possono essere responsabili. Tutto chiaro? Assolutamente no.
A Ferrara, l’altra procura che indaga sulle morti del terremoto, sono tre i procedimenti per i 4 operai morti durante la prima scossa. A giudizio andranno titolari, responsabili della sicurezza e progettisti. Al contrario del caso precedente,  per questi magistrati anche in assenza di un obbligo specifico, i titolari delle aziende avrebbero dovuto modificare i capannoni rendendoli antisismici, perché nel ferrarese il rischio sismico c’era. Questa difformità di giudizio chiarisce che anche la magistratura è costretta a camminare su un terreno scivoloso che porta ad una disomogeneità di giudizio.

Senza leggi certe anche i processi hanno i piedi di argilla e le vittime vengono punite due volte. Ma la mancanza di regole ha rischiato di fare anche altri danni. Il comune di Finale Emilia, quello del campanile con l’orologio che rimase su per metà dopo il terremoto, altro comune simbolo per la devastazione subita, è finito nell’inchiesta “Aemilia” sul radicamento della ‘ndrangheta in Emilia. Una storica azienda edile del territorio, la Bianchini, si sarebbe fatta infiltrare dalle cosche che hanno fatto assumere propri uomini nei cantieri della ricostruzione del comune. Una vicenda oscura, che ha portato il prefetto di Modena  a chiedere lo scioglimento del comune per mafia.

L’infiltrazione non è provata, non ci sono delibere o appalti voluti dalle cosche, certo è che la struttura del comune è apparsa debole ai tentativi di approccio della ‘ndrangheta, perché priva di barriere che lo Stato avrebbe dovuto creare a protezione dei piccoli centri alla prese con problemi così grandi.

Per il sindaco Ferioli, l’accostamento alla mafia sarebbe stata un’onta terribile, contrappasso severo per chi fu indicato come esempio da seguire. Lo scioglimento alla fine non c’è stato, non c’erano i presupposti per il Governo, rimane però forte il senso di abbandono, e la certezza che nemmeno questa tragedia abbia insegnato a programmare. Vivere di decreti d’urgenza permette di derogare sulle norme e spendere senza controllo, e nel contempo scarica le responsabilità su chi non può evitare di decidere, che siano eroi celebrati o semplici primi cittadini.


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